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Capitolo III - La Matematica italiana nel cinquantennio 1890-1940

Parte 3 - La matematica italiana nel periodo tra le guerre



Introduzione

Abbiamo già anticipato che il periodo tra le due guerre presenta una situazione diversa rispetto al venticinquennio 1890-1914: la Matematica italiana sembra aver esaurito lo splendido percorso che l'ha caratterizzata nel primo cinquantennio di vita unitaria e, pur mantenendo un livello complessivo rispettabile sul piano di singole individualità di rilievo, non sembra più in grado di occupare quel terzo posto (dopo Germania e Francia) che le veniva riconosciuto alla fine del periodo precedente e che era stato ratificato dal III Congresso internazionale dei matematici organizzato a Roma nel 1908. Significativo, riguardo a questa seconda affermazione, il giudizio di André Weil (1947) che abbiamo riportato nella scheda relativa alla situazione in Francia.
Ci sono certamente alcuni dati strutturali che non possono essere ignorati. E in primo luogo l’assalto che i vari gruppi disciplinari delle Facoltà di Scienze fanno al “capitale accademico” (cioè al numero di cattedre) dei matematici. La Tabella 6, per esempio, mostra che nel 1941, il capitale accademico dei matematici italiani ha subìto, rispetto al 1922 (Tabella 5), una perdita secca del 6.8%, a fronte dei significativi incrementi dei chimici (+ 5.1%), dei geologi (+3%) e dei biologi (+2.8%). Nel ventennio, dunque, la Matematica (e il Disegno) perdono “capitale accademico” e le variazioni, sebbene coinvolgenti piccoli numeri (le cattedre matematiche rappresentano ancora un terzo del totale), sono tuttavia chiaramente indicative di una tendenza che ha immediati e evidenti risvolti “politici”.

Vedi Tabelle

Lo squilibrio esistente all'interno della Facoltà di Scienze tra la Matematica, privilegiata in qualche modo nei primi decenni di vita unitaria, e le discipline sperimentali, non poteva che portare ad una estenuante guerra di logoramento. Se ne fece portavoce ufficiale, utilizzando gli spazi di autonomia concessi dalla riforma Gentile, il geofisico Giambattista Rizzo1, ex-rettore dell'Università di Messina, che all'indomani della riforma scriveva:

Il problema della coordinazione degli insegnamenti nelle nostre Facoltà si connette colla ripartizione delle cattedre fra le branche principali che costituiscono la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e naturali. Ciascuno dei tre gruppi ha la sua importanza, e si farebbe cosa contraria al progresso delle Scienze, considerate nel loro maraviglioso complesso, se ad un gruppo di discipline si volesse attribuire una preminenza sulle altre. (...) Tuttavia, dalla costituzione del Regno d'Italia fino ai giorni nostri, le Matematiche pure ebbero sempre nella Facoltà di Scienze un deciso predominio. Ciò si deve specialmente al grande valore e alla incontrastata autorità dei matematici insigni, i quali durante la evoluzione che diede alle Università italiane l'assetto attuale, furono gli inspiratori degli uomini che stavano al Governo. Chi poteva resistere ai Brioschi, ai Beltrami, ai Cremona, ai Dini? E non parlo dei matematici viventi, che sono i degni continuatori di quei grandi. Così è avvenuto che già nel Regolamento "Coppino" del 1876 furono dichiarate obbligatorie 12 cattedre di Matematiche pure, 1 di Astronomia, 1 di Fisica, 1 di Chimica e 5 di Scienze naturali. La Fisica matematica doveva essere veramente Fisica, perché era la Fisica sublime di Avogadro e la Fisica superiore del regolamento "Boncompagni" del 1848; ma praticamente, man mano che sparivano i rappresentanti di quell'indirizzo scientifico, la Fisica matematica venne assorbita dai Matematici puri, i quali ne fecero un capitolo dell'Analisi superiore, senza alcun legame colla Fisica propriamente detta.
Nel regolamento "Boselli" del 1906 troviamo ancora 12 cattedre di matematiche, 1 di Fisica, 2 di Chimica e 5 di Scienze naturali, con l'aggiunta di 1 cattedra di Astronomia e 1 di Istologia e Fisiologia generale, nelle sedi dove esistessero questi insegnamenti. Il Regolamento prescriveva bensì ai laureandi in Fisica di frequentare un corso di Fisica complementare, un corso a scelta fra la Fisica terrestre e l'Astronomia ed un altro corso a scelta fra la Chimica fisica e l'Elettrotecnica; ed ai laureandi in Scienze naturali prescriveva di seguire due corsi da scegliersi fra la Geografia Fisica, la Paleontologia e l'Antropologia; ma nessuno di questi insegnamenti fu compreso fra quelli obbligatori: (...) Ed è singolare che, mentre lo stesso Regolamento stabiliva che taluni insegnamenti si potessero riunire in uno solo e che l'Analisi superiore, la Geometria superiore e la Meccanica superiore potessero assumere la denominazione comune di Matematiche superiori, in alcune Facoltà si trovò il modo di aggiungere una nuova cattedra con questo nome alle tre precedenti.
E le cose continuarono così fino alla promulgazione del R.D. 4 Gennaio 1923, N. 58, che è tuttora in vigore, col quale si assegnarono alle Facoltà di Scienze 12 cattedre di Matematiche pure, 1 di Astronomia, 1 di Disegno, 2 di Fisica, 3 di Chimica e 5 di Scienze naturali; e venne nello stesso tempo prescritto che 5 delle 12 cattedre di Matematiche pure dovessero, di regola, raggrupparsi fra loro a due a due (per esempio: Analisi algebrica e Geometria analitica, Geometria analitica e proiettiva, Geometria proiettiva e descrittiva ecc.) e affidarsi a un medesimo titolare.
Non già che in ciascuna Facoltà di Scienze vi fossero almeno 10 professori di Matematica, oltre a quello incaricato del Corso speciale per i Chimici e Naturalisti, perché qualche insegnamento superiore poteva mancare, essendovi una certa libertà di scelta fra i corsi richiesti per la Laurea in Matematica; e nella maggior parte dei casi a ciascun insegnante di una disciplina matematica veniva affidato per incarico l'insegnamento di una seconda materia del medesimo gruppo. Questa larga assegnazione di cattedre dichiarate obbligatorie, oltre ad assicurare un certo vantaggio economico ai professori che assumevano per incarico un secondo insegnamento, era senza dubbio favorevole all'incremento degli studi di Matematica, perché ogni soggetto volenteroso e capace era sicuro di trovare subito un posto di ruolo, appena avesse avuta la preparazione sufficiente. Ma, data la limitazione dei bilanci, la generosità usata verso le Matematiche doveva essere cagione di angustie per le altre discipline, che pure non sono meno importanti per il progresso scientifico o per la preparazione degli aspiranti ai pubblici uffici.

La risposta dei matematici venne qualche anno dopo e fu affidata a Francesco Severi2 che, dopo la nomina ad Accademico d'Italia e la progressiva emarginazione dei matematici a-fascisti o antifascisti, si avviava a diventare il capo della comunità matematica italiana. La sede scelta fu quella dell'assemblea generale della Società Italiana per il Progresso delle Scienze svoltasi a Trento nel settembre 1930. Qui, dopo aver tratteggiato il valore della matematica italiana del periodo risorgimentale (anche secondo il giudizio di alcuni matematici tedeschi) che gli appare giustamente il vero “turning point” della nostra tradizione e dopo aver ripetutamente sottolineato come anche la matematica più astratta trovi spesso applicazioni impensabili, Severi affronta quello che appare essere il vero tema della sua conferenza:

Se si pensa che la matematica possa, senza danno, perdere in Italia talune delle sue posizioni universitarie, perché è ancora, oggi, un organismo sano e robusto, reputo per fermo che ci si inganni.
È verissimo che nelle nostre Facoltà di Scienze (...) vi sono discipline che necessitano di un maggior numero d'insegnamenti, non soltanto pei fini professionali, ma altresì per le esigenze del progresso scientifico. Ma io trovo che il sistema invalso presso qualche Facoltà, di provvedere ai nuovi, impellenti bisogni, profittando delle cattedre di matematica, che rimangono di mano in mano scoperte, è estremamente pericoloso per l'avvenire di questa scienza in Italia.
Si dice da taluno che la matematica ha potuto svilupparsi così ampiamente da noi, appunto perché ha avuto sempre disponibili molte cattedre universitarie. Credo che questa sia una parte; non tutta la verità. Le tradizioni, le inclinazioni naturali dello spirito di nostra gente, non posson non avere avuto influenza notevole. D'altronde è anche vero che le scienze sperimentali non hanno potuto progredire in egual misura, perché lo stato della scienza è oggi tale che, nell'ambito sperimentale, non si ottengon grandi risultati senza grandi mezzi di laboratorio e abbondante materiale di osservazione. Ma è comunque fuor di dubbio che la posizione di una scienza nell'economia generale degl'insegnamenti universitari, costituisce un importantissimo coefficiente del suo progresso. È evidente che questa è una ragione per migliorare le posizioni delle scienze che ne hanno bisogno, non per peggiorare quelle della matematica.
Il giorno che decadesse il livello dei nostri studi matematici (e qualche sintomo, per ora fortunatamente non grave, ci fa trepidare), sarebbe un bruttissimo giorno per la Nazione, in quanto, a scadenza più o meno lunga, ne deriverebbe un decadimento del livello scientifico generale ed in modo particolare quello delle scienze fisiche. (...) Io credo che, a superare le difficoltà di ordine finanziario, che nascerebbero ad aumentare il numero degl'insegnamenti di altre scienze, senza diminuire quelli di matematica, potrebbe giovare la soppressione di qualche Facoltà (non dico di qualche Università!), che all'atto pratico si è rivelata superflua. Val meglio, molto meglio, avere una concentrazione di forze in taluni centri largamente dotati, piuttosto che pochi mezzi e poche cattedre disseminate qua e là.

Come si può vedere, il ragionamento di Severi è lineare: se gli scienziati sperimentali hanno ragione di lamentarsi della scarsa considerazione in cui sono tenuti (sia in termini di “capitale accademico” che di finanziamenti), i matematici tuttavia non hanno torto. Pur se Severi fa rimarcare l'unilateralità della posizione di Rizzo, è interessante tuttavia sottolineare anche i punti comuni ai due interventi, ed in primo luogo l'accettazione delle “compatibilità finanziarie”, in omaggio alle quali Severi è costretto al trucco di proporre l'abolizione di qualche Facoltà. Inoltre, nessuno dei due sembra mettere apertamente in discussione il tetto legislativo al numero delle cattedre, che all'aspetto finanziario è direttamente legato. Una linea difensiva, comunque, quella di Severi, pervasa certo da una vena nazionalistica («le inclinazioni naturali dello spirito di nostra gente») che l'autarchia avrebbe poi accentuato, che spingeva sempre più i matematici nelle braccia del potere anche a scapito, come vedremo, della loro autonomia professionale.
Ma nemmeno si deve dimenticare, per tornare alla affermazione iniziale sul tendenziale declino della matematica, il fatto che se si eccettua la nascita, nel 1930, del “Giornale dell'Istituto Italiano degli Attuari”, nessuna nuova Rivista specializzata di Matematica nascerà in Italia, e anzi alcune delle più prestigiose Riviste fondate nel cinquantennio precedente avranno serie difficoltà a mantenere alto il loro livello e competere degnamente sulla scena internazionale. Via via più rarefatti si faranno poi i contatti internazionali e sempre più asfittica la comunicazione interna (si pensi che il promo congresso dell’UMI si terrà solo nel 1937, quindici anni dopo la fondazione).
Una valutazione dello stato della Matematica italiana alla fine del ventennio si trova in una memoria del già citato Francesco Severi: La matematica italiana nell'ultimo ventennio  (Severi 1943).

Il tono è dichiaratamente celebrativo e adulatorio: si precisa sin dall'inizio che la rassegna è volta alla «valutazione dell'enorme mole di lavoro compiuta nel ventennio dai matematici italiani e rappresentata da migliaia di pubblicazioni originali e da decine di testi e di opere trattatistiche». Vengono così presi in esame i principali campi di ricerca a partire dalla geometria «in cui l'Italia da oltre mezzo secolo ha conquistato e mantenuto [una] posizione di guida (...)»: la rassegna è in realtà un elenco di nomi di matematici associati all'ambito dei loro principali lavori. Lo stesso metro viene usato per l'analisi e per la geometria differenziale che «si può dire nata quasi completamente in clima italiano (da parte di matematici ebrei, come C. Segre, Fubini, Terracini e di matematici ariani come Bompiani, Enea Bortolotti...)». Qui Severi, che in analoga occasione un anno prima era riuscito a non fare il nome di Vito Volterra, raggiunge ora un risultato forse migliore: Volterra viene citato una sola volta, di sfuggita, e solo come “allievo” di Ulisse Dini. Altro spunto ‘brillante’ si ha nel campo della meccanica e della fisica matematica dove «la tranquillità con cui ha potuto svolgersi nell'ambiente universitario italiano, l'opera dei ricercatori, ha ivi consentito notevoli apporti anche da parte di matematici ebrei, tra i quali, durante il ventennio, eccelle Levi-Civita». L'articolo termina osservando che «la guerra, pur assorbendo tante fresche energie e rendendo più difficili i rapporti scientifici internazionali, non ha diminuito la nostra forza di produzione nel campo matematico».
La conclusione di Severi non è accettabile (così come il suo metro di indagine, che si limita ad elencare, suddivisi nei vari campi, i lavori dei matematici più noti), ma quello che importa sottolineare è che il giudizio complessivo è comunque critico e l'autore è costretto a parlare di pericolosi segnali di decadenza. Non si tratta di un tracollo verticale ma di una evidente incapacità a ripetere quel periodo eccellente, all'inizio del secolo, che aveva segnalato la matematica italiana nel panorama internazionale. I vertici raggiunti dalla scuola italiana di analisi, di fisica matematica (soprattutto nel settore dell'elasticità, la “questione nazionale degli italiani” secondo la felice espressione di Klein) e di geometria algebrica non vengono più toccati nel ventennio, anche se qualche frutto è stato raccolto sul piano del prestigio come per es. l'organizzazione dell'importante Congresso Internazionale di Bologna del 1928.
Per avere un quadro meglio delineato della situazione italiana, piace riportare una rapida rassegna di ricordi (soggettivi, ma ugualmente importanti per capire com’era vissuta la situazione) di alcuni matematici formatisi nel periodo tra le due guerre o negli anni immediatamente successivi. Iniziamo da  Lucio Lombardo Radice, la cui testimonianza però la facciamo precedere da una analoga di Garrett Birkhoff, per leggere insieme le rispettive (e molto efficaci) descrizioni delle atmosfere matematiche dei propri paesi.
Scrive (Birkhoff, 1977, pp. 68-69):

(...) negli anni '30, l'Analisi tradizionale non fu più l'interesse centrale dei giovani matematici americani. Sebbene si riconoscesse la superiorità dei vecchi analisti, quali G.D. Birkhoff e H. Weyl, i giovani, io, Albert, Dunford, Jacobson, Mac Lane, Montgomery, Rosser, Steenrod, Tukey, consideravamo la Logica, l'Algebra astratta, la Topologia e l'Analisi funzionale come le aree più promettenti delle scoperte più importanti nel futuro. Ciò ci indusse a concentrare la nostra attenzione sulle ricerche di von Neumann, Stone, Pontrjagrin e Witney. Quando Artin e Chevalley raggiunsero Wedderburn a Princeton, questa tendenza si accelerò. Ci entusiasmammo delle drammatiche scoperte di Gödel in Logica, delle vaste generalizzazioni fatte da E. Noether e dalla sua scuola d'Algebra, e del lavoro di É. Cartan e O. Schreier sui gruppi topologici... Ispirati dai recenti successi di von Neumann, Stone, Schauder e Leray, speravamo anche che le nuove teorie degli operatori lineari sugli spazi di Hilbert e di Banach avrebbero portato verso enormi generalizzazioni e semplificazioni delle teorie classiche delle equazioni differenziali.

Scrive invece (Lombardo Radice, 1978, p. 97-98):

Sono stato studente di Scienze Matematiche all'Università di Roma tra il ‘34 e il ‘38. Eravamo in pochissimi avviati alla laurea di “matematica pura”...; tra i cinque e i dieci. Ma, pur lodando il tempo passato per certi aspetti, debbo aggiungere che esso era contrassegnato da una notevole chiusura, tanto rispetto al più vasto mondo, quanto rispetto a nuove teorie e metodi che in quel più vasto mondo si sviluppavano. Non numerosi i viaggi, i congressi, niente professori visitatori ma solo qualche conferenza (non molte), di francesi e tedeschi soprattutto, comunque di europei. Vi era poi uno scarso interesse, e talvolta una certa avversione (per es. in quel pur grandissimo scienziato che fu F. Severi) per possenti ma pesanti teorie, algebriche e topologiche in particolare, che si sviluppavano in modo impetuoso e sistematico in Francia, in Germania, negli USA, in Polonia, nell’Unione Sovietica. Quando ritornai, nel 1945, Severi, che aveva compreso il grave ritardo algebrico e topologico della nostra ricerca matematica, incaricò me di un Seminario di Algebra (seguivo il van der Waerden), e Michelangelo Vaccaro, matematico allora non meno solitario, di un Seminario di Topologia.

Se si pensa che la Moderne Algebra di van der Waerden risale alla fine degli anni ’20, si capisce subito l’enorme ritardo con cui l’impostazione moderna in Algebra e Topologia viene recepita in Italia. E ciò malgrado l’interesse che tale impostazione aveva suscitato in giovani quali Fabio Conforto, Tullio Viola e Achille Bassi e alcuni stimoli del Comitato matematico del CNR sotto la direzione di Gaetano Scorza (1876-1939) che vengono documentati nelle lettere del periodo. (lettere di Fabio Conforto al Comitato matematico del CNR)

Torniamo alle nostre testimonianze per dire che quella di Lombardo Radice è confermata da quest’altra di Enrico Magenes, che rievoca l'atmosfera respirata dai giovani matematici ai primo congresso UMI del dopoguerra (Pisa 1948). Ricorda (Magenes, 1998, p. 4):

Quali furono le impressioni lasciate in noi dal Congresso, anche in relazione alle aspettative che, seppure in forma non ancora chiara, avevamo? Mi sembra che esse si possano riassumere sostanzialmente come segue: anzitutto avemmo la conferma che tra i matematici italiani, soprattutto tra i più anziani, c'era un atteggiamento abbastanza diffuso di «diffidenza» verso la tendenza ad un maggiore «astrattismo» nella matematica coltivata all'estero negli ultimi anni. Questo atteggiamento risultò evidente nella pur bella ed interessante conferenza di Severi e così pure nella mancanza di una sezione dedicata all'Algebra, mentre ebbe conferma la tradizione della grande Scuola italiana di Geometria algebrica. Ma anche nel campo degli Analisti italiani, come avevamo già potuto constatare nella Scuola Normale, esso si manifestava nei confronti delle teorie degli spazi «astratti» che erano nate soprattutto in Polonia con S. Banach e in Francia con «Bourbaki».

Ugualmente preziosa la testimonianza di Giovanni Prodi che appena laureato (1949) partecipa a Parma ad un agile Convegno sul tema “Analisi funzionale ed equazioni funzionali”. Lì si appassiona al tema, anche per il fascino di Renato Caccioppoli (1904-1959), e chiede da dove poter cominciare. Naturalmente, gli rispondono, da Banach (Prodi, 1997, pp. 392-93):

Mi scuso se, come mi capita sempre più frequentemente con il procedere degli anni, attingo ai ricordi personali. Il convegno a cui mi riferisco fu organizzato nella tarda primavera del 1949 dal prof. Antonio Mambriani presso l'Istituto di Matematica dell'Università di Parma. Il tema era quello dell'Analisi Funzionale. Il convegno durò una mattinata soltanto, ma fu vivacissimo. Il momento centrale fu la conferenza di Caccioppoli; era la prima volta che io lo incontravo, anche se mi erano già capitate tra le mani alcune di quelle sue note brevissime e dense di idee.
Ricordo che parlò della “foresta funzionale”, in cui non ha senso studiare un albero da solo, anzi dai caratteri generali della foresta si può risalire a quelli di ciascun albero [...] Ci fu anche un intervento tecnico di Zwirner ancora sul teorema di Leray-Schauder, dove per la prima volta sentii parlare di simplessi e di tecniche topologiche. Ci fu anche un intervento di G. Fichera, allora giovanissimo, che attirò gli elogi di F. Severi, il nume tutelare della matematica italiana. A Sua eccellenza F. Severi veniva spedito un telegramma di ossequio tutte le volte che i matematici italiani facevano qualche importante riunione. [...]
Io avevo conseguito la laurea da pochi mesi; avevo avuto la fortuna di incontrare, proprio a Parma, Giovanni Ricci, maestro affascinante dotato di uno straordinario gusto matematico. Avevo già deciso di dedicarmi alla matematica, ma non avevo scelto ancora il campo; inoltre la mia cultura matematica, anche per le vicissitudini di guerra, era rimasta ad un livello piuttosto modesto. A conclusione del convegno di Parma mi resi conto che l'analisi funzionale era ciò che cercavo; finite le conferenze, mi avvicinai timidamente al prof. Cimmino per chiedergli da quale libro cominciare. La risposta fu “Dal Banach”.

Termino questa piccola rassegna di testimonianze con quella di Paolo Salmon che ha gustosamente raccontato le vicende iniziali della sua carriera matematica nella Torino dei primi anni '50. Dopo aver descritto l'arretratezza dei piani di studio per il Corso di Laurea in Matematica, che ancora fino ai primi anni '60 non comprendevano alcun corso di Algebra, Salmon così procede (Salmon, 1996, pp. 231-32):

L'arretratezza di tale situazione apparve in modo palese durante il decorso degli anni '50 quando diversi matematici (a partire da Barsotti3 a Pisa) si erano fatti portavoce delle esperienze di altri paesi avanzati (U.S.A., Francia, Germania). Così, nel 1960, fu introdotto il corso di algebra al posto di quello di chimica e la geometria descrittiva fu praticamente abolita [...].
Ma a Torino, quella piccola rivoluzione nell'insegnamento era parzialmente iniziata quasi dieci anni prima, nel 1951, coll'arrivo di Aldo Andreotti4. Allora appena ventisettenne, Andreotti aveva raggiunto una maturità assolutamente sbalorditiva, derivata in buona parte da lunghi mesi trascorsi negli Stati Uniti vicino a grandissimi matematici quali Weil, Kodaira, Spencer, Lefschetz, Zariski e tanti altri. Gli amori di Andreotti per la geometria algebrica, sorti già a Pisa, ma poi sviluppatisi a Roma dopo il 1947 sotto l'influenza di Severi (grande ammiratore del promettentissimo discepolo), avevano poi risentito dell'esperienza americana, dove i metodi di indagine della pur gloriosa scuola italiana erano stati irrobustiti con altri ingredienti irrinunciabili: algebra, topologia (generale ed algebrica), funzioni di variabili complesse, geometria differenziale, ecc.
Al momento del suo arrivo a Torino, Andreotti aveva alcuni punti fermi. Tutti i matematici italiani erano un po' ignoranti, ma soprattutto i cultori di geometria algebrica; il vecchio e venerato maestro Severi era spesso di ostacolo all'aggiornamento perché non incoraggiava abbastanza i giovani a confrontarsi con altre scuole giudicate concorrenziali a quella italiana da difendersi ad ogni costo. Era inoltre assurdo continuare ad insegnare nel primo biennio di matematica la geometria descrittiva che veniva da lui sostituita con vari argomenti di algebra: ideali, polinomi, risultante [...].

Queste testimonianze, già abbastanza eloquenti per le chiusure e i ritardi che segnalano, assumono maggiore rilievo se messe a confronto, come s’è fatto, con la situazione di un paese matematicamente emergente come gli Stati Uniti dove i giovani, come s'è visto dalla citazione di Birkhoff, vivevano il fascino di ben altra atmosfera e consideravano la Logica, l'Algebra astratta, la Topologia e l'Analisi funzionale come le aree più promettenti della ricerca matematica. Il distacco italiano da questo trend internazionale è confermato da (Fichera 1988, p. 8) che così scrive:

L'Algebra astratta e la Topologia, che all'Estero andavano vigorosamente affermandosi, non trovarono validi cultori in Italia, nel periodo fra le due guerre, e poiché da esse scaturivano i nuovi potenti metodi per affrontare i grandi problemi ancora insoluti della Geometria algebrica, il baricentro di questa si spostò dall'Italia all'Estero. Severi aveva intuito che in quelle due nuove discipline dovevano trovarsi le nuove vie di sviluppo delle teorie che i grandi Maestri italiani avevano così luminosamente coltivato. Mi ricordo che nelle tante lezioni che, sia da studente che dopo, volli ascoltare da lui, egli incoraggiava i suoi ascoltatori a dedicarsi allo studio delle nuove teorie dell'Algebra e della Topologia, perché egli presentiva che in essa risiedeva la possibilità di andare avanti nel campo della Geometria algebrica. Non lo fece egli stesso, perché egli apparteneva alla sua generazione ed era già stanco per il lungo cammino compiuto e le tante mete raggiunte, ma non lo fecero neanche quelli che a lui succedettero ed avrebbero potuto farlo.

Né il problema riguarda soltanto la Geometria, perché anche per l'Analisi (Fichera, 1963, p. 412) aveva denunciato analogo ritardo:

L'analisi di Tonelli è sempre condotta con ritmo serrato e con abilità tecnica veramente ammirevole. [...] Però raramente i problemi trattati si situano nel quadro dell'analisi astratta. È soprattutto il fatto tecnico che lo interessa ed egli supera quasi tutte le difficoltà grazie ad una padronanza dei metodi della teoria di variabile reale veramente magistrale. L'opera di Tonelli fa intravedere una caratteristica comune a molti altri specialisti italiani di analisi funzionale: il loro gusto per il concreto e, di conseguenza, la loro tendenza a preferire, quale strumento di lavoro, procedimenti basati sulla teoria delle funzioni di variabile reale. In nessun paese, forse, come in Italia, tali procedimenti sono stati usati così largamente e con molto profitto nei problemi dell'analisi funzionale. Ed è certamente questa la ragione per cui l'Italia sembra oggi tenersi lontana dagli sviluppi attuali dell'analisi funzionale. Questa, in effetti, si è evoluta all'estero grazie a procedimenti di natura algebrica e strutturale poco coltivati nel nostro paese. [...]
L'opera di Renato Caccioppoli, nel quadro dell'analisi funzionale, si inspira a una visione puramente geometrica. [...] Egli, in effetti, una volta pervenuto a importanti risultati di topologia funzionale (in maggior parte scoperti contemporaneamente da Schauder e Leray5), subito li particolarizza a problemi relativi alle equazioni differenziali. [...] Una tale procedura si rivela quasi sempre più ardua di quella consistente a stabilire teoremi di analisi funzionale generale. Caccioppoli fu così condotto a sviluppare una tecnica estremamente raffinata che permettesse di applicare a casi concreti i principi generali di analisi funzionale. Da questo punto di vista esiste una certa analogia tra la sua opera e quella di Tonelli, nella misura in cui Caccioppoli sente il bisogno di interessarsi al problema tecnico concreto per mettere in evidenza le sue teorie. [...]
Come si è già messo in evidenza, l'analisi funzionale italiana, a motivo di questa costante ricerca del concreto, è rimasta oggi estranea alle grandi correnti di sviluppo della teoria all'estero dove l'analisi funzionale è conside-rata piuttosto come teoria in sé. Non vogliamo chiederci se ciò sia un bene o un male: ci limitiamo a constatare il fatto.

Il problema consiste allora in questa “estraneità” alle correnti più vive della Matematica degli anni '30. Come vedremo, sia l’Istituto di Picone (“Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo”, INAC, fondato nel 1932) sia l’Istituto di Severi (“Istituto Nazionale di Alta Matematica”, INDAM, fondato nel 1939) fecero quello che potevano, ma le testimonianze citate ci dicono che non era soltanto a livello organizzativo che si poteva ovviare ai “preoccupanti segnali” di crisi della Matematica italiana. Il generoso tentativo avviato dal Comitato matematico del CNR sotto la Direzione Scorza nel quadriennio 1928-1932 fu inopinatamente interrotto, come vedremo, dalle scelte nel nuovo Comitato di “Matematica applicata”, più vicino forse alle scelte del regime, ma deleterio per le sorti della matematica italiana, dove favorì una chiusura al nuovo dettata da una “sindrome di accerchiamento” da cui si fece prendere il vertice della comunità. L’autarchia (economica, politica e intellettuale) voluta dal regime finì poi col giustificare, a livello esterno, questa scelta di isolamento.
Ancora, totalmente disincentivati sono gli studi di algebra, malgrado questa disciplina contasse validi studiosi come Bianchi, Scorza e Cipolla. Nessun concorso universitario venne bandito per questa disciplina e i suoi cultori furono costretti, con gravi penalizzazioni, a cercar di guadagnare una posizione accademica attraverso i concorsi delle più forti discipline geometriche o analitiche. Abbiamo già visto le conseguenze negative che tale situazione determinò nello sviluppo della geometria algebrica. E invece, in sostanziale controtendenza, appaiono alcuni settori che, nel cinquantennio precedente, non avevano trovato collocazione istituzionale all'interno della disciplina. Si tratta di settori emergenti quali quelli degli studi relativi al Calcolo delle probabilità, alla Statistica, alla Matematica finanziaria e attuariale etc.
Il sorprendente sviluppo del Calcolo delle probabilità è legato ai nomi di Guido Castelnuovo, di Francesco Paolo Cantelli e di Bruno de Finetti. Attorno ad essi, grazie agli spazi di autonomia concessi dalla riforma Gentile, avviene un vero e proprio terremoto istituzionale: l'insegnamento della Statistica, prima riservato all'ambito delle scienze morali, muta la propria collocazione disciplinare passando nell'ambito delle facoltà scientifiche e acquista tale prestigio da ottenere nel 1936 l'istituzione di una Facoltà universitaria ad essa dedicata. È il punto di arrivo di un'intensa opera articolata in significative tappe intermedie: tra gli a.a. 1926-27 e 1931-32 il numero di insegnamenti di Statistica, Statistica applicata, Demografia e Calcolo delle probabilità passa da 46 a 71, con un incremento che è l'effetto della crescente domanda di personale specializzato da parte dell'Istituto superiore di statistica (creato nel 1926) e del mondo assicurativo. È del 1927 l'istituzione di due Scuole speciali in Statistica (Roma e Padova) e l'avvio (a Roma) della Scuola superiore di Scienze statistiche a attuariali che rilascia una laurea e alla quale possono accedere gli studenti del primo biennio delle Facoltà scientifiche. Un R.D. del 13 febbraio 1936 riunisce infine le due Scuole romane nella nuova “Facoltà di Scienze statistiche, demografiche e attuariali”, unica in Italia e in Europa. La nuova fisionomia della Statistica italiana è confermata dalla nascita (1939) della società professionale e di riviste specializzate: “Metron” (1921), “Supplemento statistico” (1935) ai “Nuovi problemi di Politica, Storia ed Economia” e poi (1941) “Statistica”. È significativo il fatto che uno dei primi impulsi a questa direzione era venuto dalla creazione nel 1928, a Milano, dell'Istituto italiano degli Attuari che si segnala fin dall'inizio come prestigiosa istituzione scientifica e culturale. E sono ancora principalmente matematici i suoi ispiratori: Luigi Amoroso, Cantelli, Pietro Smolensky e Guido Toja. Contemporaneamente, a Roma, è Castelnuovo che attiva le “conferenze di cultura assicurativa” i cui testi saranno raccolti negli «Atti dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni». Singolare appare però, in questo vivace intreccio di iniziative, la sostanziale “solitudine” degli studi di Volterra sull'ecologia matematica e la dinamica delle popolazioni, malgrado la stretta vicinanza di quest'ultimo settore alla Matematica attuariale. Oltre ai fondamentali studi di Volterra, si può solo citare qualche sporadico lavoro di Insolera, di Tricomi, di Cantelli e di Pacifico Mazzoni (quasi tutti databili alla seconda metà degli anni '20).

Il quadro fin qui delineato della matematica italiana nel periodo tra le due guerre è dunque di chiaroscuro: di luci, ma soprattutto di ombre. Se non ci si accontenta della ovvia constatazione che era difficile conservare i livelli altissimi conseguiti nel primo cinquantennio di vita unitaria, questa valutazione conduce subito alla ricerca delle cause. Pur trovandosi in un campo accidentato dove i risultati di una strategia si vedono solo a media e lunga scadenza e a volte in una forma diversa da quella attesa, alcune osservazioni possono essere fatte.
Il fascismo è responsabile dello stato di relativa crisi in cui viene a trovarsi la matematica italiana? Siamo di fronte semplicemente ad una “involuzione” interna, nel senso che per la matematica italiana le cose si sarebbero svolte più o meno allo stesso modo, con o senza il fascismo, oppure tale appannamento fu in realtà favorito dal particolare regime sociale?
Certamente la risposta è positiva se facciamo riferimento al quadro generale. È facile capire come alcuni interventi regressivi legati al tentativo di “fascistizzare” la cultura non abbiano prodotto un clima favorevole alla ricerca in generale e a quella matematica in particolare che, in alcuni settori chiave, assisteva a radicali cambiamenti; la stessa intensità degli scambi culturali internazionali viene sacrificata alle esigenze della “autarchia” (politica, economica e culturale). In altri termini, la crisi virtuale della matematica italiana sembra effetto del sovrapporsi dei fattori “esterni” a quelli interni alla disciplina.
Ma tale risposta deve diventare più articolata se si vuole entrare maggiormente in merito alla questione e si vogliano meglio delimitare le difficoltà conseguenti ai condizionamenti del fascismo dalle debolezze “politiche” intrinseche alla disciplina. Il regime non ebbe (né poteva avere) un'influenza diretta sullo sviluppo interno della disciplina, così che risulta davvero difficile individuare una “matematica fascista”. Sul “Bollettino”dell'UMI si legge come unica curiosità che a Lucca, in seno al GUF, si è costituito un circolo matematico, in cui alla carica di “consolo” è chiamato il matematico Luigi Campedelli, mentre “viceconsolo” è un altro giovane matematico, Gino Arrighi. Anche per quanto riguarda i contenuti, una tale ricerca dà scarsi risultati: a parte qualche tentativo di Bruno De Finetti (1906-1985) di collegare con il fascismo nuovi approcci del Calcolo della probabilità e a parte la risibile identità di Picone: matematica applicata = matematica fascista, gli unici settori dove si può distinguere un'impronta del regime riguardano l'economia matematica, il calcolo delle probabilità e la matematica attuariale, discipline che traggono nuove sollecitazioni dal mutato contesto sociale. I primi lavori “probabilistici” di Francesco Paolo Cantelli (1875-1966) risalgono a prima della guerra, ma è nel ventennio che si giunge a parlare di ‘scuola italiana’ in questo settore; la politica sociale seguita dal regime è senz'altro una delle cause – il Ministro dell'Economia Nazionale preme apertamente per la creazione di un Istituto per il progresso della tecnica assicurativa – che spiegano lo sviluppo di questi studi che, anche attraverso il già citato “Giornaledegli attuari”, rendono i matematici italiani interlocutori privilegiati della scuola francese e russa.
A livello strutturale, d'altra parte, la presenza del regime si esprime attraverso gesti ed iniziative – alcuni dei quali di notevole ambizione – che non risultano inseriti in un discorso organico. I grandi mutamenti che avvengono nella scienza e nella sua organizzazione in quel periodo avrebbero avuto bisogno di ben altra capacità di analisi. Gli interventi del potere politico nel ventennio sembrano invece basarsi più su idee di singole personalità – a volte contraddittorie – che non su un piano organico, venendo così a fare difetto nella fase esecutiva: quasi mai alle parole (piene di roboanti espressioni retoriche) segue una pronta e coerente realizzazione, e si assiste a mutamenti di rotta in relazione all'urgenza o meno del problema del consenso presso determinati gruppi sociali o in relazione all'evolversi della crisi economica e delle risposte protezionistiche. In generale, il fascismo non seppe pianificare un intervento di medio-lungo periodo, disperdendo quel senso di mobilitazione favorevole alla scienza che si era creato all'indomani della prima guerra mondiale.
Ritornando allora al problema di vedere come riuscì a sopravvivere, materialmente e intellettualmente, la matematica italiana durante il regime, si può dire che pur con le dolorose perdite conseguenti alle leggi razziali del 1938 essa non conobbe emorragie migratorie paragonabili a quelle che sin dal 1933 falcidiarono la scienza tedesca sotto il nazismo; né subì un quasi totalizzante asservimento all'ideologia dominante pari a quello che toccò ai colleghi russi sotto il regime sovietico. Soprattutto attraverso l'analisi delle loro corrispondenze, i matematici italiani appaiono sopravvivere come entità culturale, concentrandosi sui bisogni di riproduzione sociale della loro disciplina. È in questo ambito che svolgeremo il tentativo di vedere come reagì la comunità matematica ai problemi nuovi imposti dal fascismo, non volendoci limitare a descriverne l'intrusione ideologica nel mondo scientifico.
Si cercherà di analizzare la posizione della disciplina stessa nel sistema educativo generale, i suoi campi di applicazione, i suoi dintorni scientifici e tecnici, le sue relazioni “politiche”, la posizione dei singoli ricercatori e i loro rapporti con il sistema disciplinare. In definitiva, si cercherà di descrivere il sistema completo della disciplina e  tutte le sue relazioni essenziali con l'ambiente. Considereremo perciò la matematica come un “sistema sociale”, la cui funzione essenziale è la produzione di nuovo sapere matematico6. Cioè per “matematica” intenderemo un sistema organizzato della disciplina capace di assolvere alla funzione centrale di produzione e diffusione di nuove conoscenze di tipo specifico, accettando l’opinione corrente secondo la quale i tratti essenziali della conoscenza matematica sarebbero il suo ruolo pervasivo di strumento linguistico e teorico nella produzione della conoscenza scientifica ed il fatto che essa non ha un oggetto ben definito nel mondo materiale e non ci sono quindi confini precisi per le sue applicazioni.
Il sistema della matematica definisce dunque la sua identità attraverso la specificità disciplinare. In conseguenza di questa identità (o, se si preferisce, della sua differenza da altri sistemi disciplinari) il nucleo centrale del sistema è costituito dalla matematica “pura”, che riveste il ruolo determinante di produrre e riprodurre l'identità del sistema e dei singoli cultori. Tre sono sostanzialmente gli aspetti essenziali che assicurano la coerenza interna del sistema e consentono rapporti stabili con l'ambiente: la produttività, la legittimazione sociale e l'autonomia professionale.
Con il termine “produttività” si intende la possibilità di
– garantire la capacità ‘riproduttiva’ del sistema disciplinare, cioè la formazione, il reclutamento e la sistemazione dei giovani ricercatori;
– mantenere la sua creatività, consentendo (o almeno non impedendo) per esempio possibili “devianze” dai settori tradizionali di ricerca;
– organizzare le comunicazioni all'interno del settore e con l'esterno, verso le altre discipline e le comunità degli altri paesi mediante i canali classici della comunicazione scientifica: accademie, seminari, società professionali, riviste specializzate, partecipazione ai congressi internazionali etc.
Con il termine “legittimazione sociale” si intende invece il riconoscimento della funzione sociale della Matematica (come di ogni altra disciplina). Va osservato che questa è ottenuta in due modi: attraverso il suo valore culturale e attraverso il riconoscimento della sua utilità. È noto che il valore culturale della matematica può spaziare in un arco molto vasto di metafore (“matematica come arte”, “onore della razionalità umana” etc.). Dal momento che né l'utilità dei risultati più nuovi ed originali della matematica né il loro valore culturale sono immediatamente visibili, i matematici (e non solo quelli italiani) sono stati spesso sulla difensiva, lamentandosi della mancanza di comprensione per la loro disciplina. Un aumentato riconoscimento del ruolo sociale della matematica passa certamente attraverso la conservazione e possibilmente l'estensione delle istituzioni, di base e di supporto, della produzione matematica: le istituzioni di base essendo in Italia quelle universitarie, quelle di supporto essendo i luoghi dove la matematica è insegnata e applicata (il sistema formativo generalizzato con l'aggiunta della Scuola Normale di Pisa, dell'INDAM –fondato però nel 1939, quindi quasi alla fine del periodo qui considerato – e dell'INAC, fondato da Picone nel 1927 a Napoli e trasferito poi a Roma nel 1932 quale Istituto del CNR).
Nella generalità dei casi, la legittimazione di una disciplina accademica che non ha un immediato campo di applicazioni riposa, principalmente, sulla sua presenza a livello di educazione secondaria dato che la formazione dei docenti e la produzione scientifica avvengono nelle università. Ciò spiega perché la matematica scolastica sia un campo di legittimazione di grande importanza e ad essa i matematici italiani abbiano dedicato importanti energie. Così come grande impegno misero, prima e dopo il periodo qui esaminato, nella sensibilizzazione verso la matematica degli altri settori scientifici del Paese, perché l'utilità della matematica è fortemente sottolineata dalla sua integrazione con le scienze naturali e la tecnologia. Dal momento che la matematica non ha un campo definito di applicazioni nel mondo materiale, le strategie di legittimazione sociale debbano essere mediate attraverso l'intero sistema scientifico. E d'altra parte ciò non esclude l'importanza fondamentale che riveste, come si vedrà nel paragrafo destinato all'INAC, lo sviluppo di uno specifico settore di “matematica applicata”.
L’autonomia professionale, infine, è assicurata attraverso il monopolio della competenza su una forma specifica di produzione della conoscenza ed è grandemente favorita da una comunicazione (interna ed internazionale) densa e di grande portata: un sistema disciplinare legato nelle sue funzioni centrali (produzione) alla comunicazione internazionale guadagna molto, in autonomia, di fronte al potere nazionale. D'altra parte, poiché le risorse materiali provengono dal potere nazionale, è necessario un equilibrio dinamico fra autonomia e integrazione nella società nazionale. Un equilibrio analogo è ancora necessario fra legittimazione per utilità e autonomia, dal momento che l'autorità a decidere quanta e quale matematica insegnare e dove applicarla non giace interamente nelle mani dei matematici. In tempi in cui il valore culturale della disciplina era dubbio (o veniva messo in dubbio da filoni culturali egemoni nel Paese e da sistemi disciplinari aggressivi verso il “capitale accademico” gestito dai matematici), muoversi verso argomenti privilegianti solo l'utilità della matematica era così un problema delicato, perché rischiava di oscurare la legittimità per valore culturale.
Come vedremo, questo complesso di compiti fu affrontato dalla comunità matematica italiana senza un respiro organico e con molta approssimazione. Per esaminarlo con qualche dettaglio, pur coscienti della impossibilità di separare un aspetto dall'altro, ci vediamo costretti ad affrontarli inizialmente in maniera separata e a lasciare solo a un paragrafo finale il compito di un riesame globale e unificante. Cominceremo, ovviamente, dall'affrontare il problema della “produttività” e, in particolare, dalla organizzazione della comunicazione, che appare come una delle caratteristiche più importanti e giustifica il ruolo centrale assegnato alle istituzioni e in particolare alla Società professionale dei matematici che con la sua nascita nel 1922 inaugura quasi il ventennio in esame.

 

1. La produttività