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Capitolo III - La Matematica italiana nel cinquantennio 1890-1940

Parte 2 - La "grande guerra" e le sue conseguenze



Introduzione

Malgrado il fatto che la bibliografia italiana sulla prima guerra mondiale, la “grande guerra”, sia sterminata, le nostre conoscenze sulla mobilitazione scientifica italiana durante la prima guerra sono scarse e malsicure. Il motivo è dato dal carattere prevalente degli studi che si concentrati per lo più sul versante della rappresentazione e della memoria e non sullo svolgimento e sulle caratteristiche del conflitto1. Il caso italiano, così, a differenza forse degli altri paesi impegnati nel conflitto2, è quello che maggiormente appare sprovvisto di apparati critici: gli elementi d'informazione che possediamo sono ancora molto sparsi e poco sistematici.
Per la matematica, in particolare, anche se è possibile avanzare qualche ragionevole ipotesi di lavoro (soprattutto sulle conseguenze riguardo alla pratica scientifica e agli aspetti istituzionali), tale situazione ha indotto a seguire la via dell'analisi secondo le tre direzioni seguenti:

1. I matematici e l'intervento
2. La mobilitazione ed i contributi tecnico-scientifici
3. Le conseguenze della guerra

Ci baseremo, soprattutto per i paragrafi 2 e 3, sul seguente Postulato Interpretativo:

La prima guerra non fu una guerra tecnologica, almeno nel significato che siamo abituati a dare a questa espressione dopo il  secondo conflitto mondiale. Fu una guerra di posizione e di usura, basata sulle conoscenze scientifico-tecnologiche acquisite prima del conflitto. Cioè, non fece leva sulla produzione di conoscenze fondamentalmente nuove come radar, missili e, in ultimo, computers, ma sulla capacità d'organizzare una produzione di massa. Basata, è vero, su innovazioni (sottomarini, aerei, dirigibili, ...), ma derivanti più dal lavoro dei tecnici che da quello degli scienziati.

Da questo postulato discendono i corollari seguenti:
Corollario I: a parte specifiche differenze, questa situazione è caratteristica di tutti i paesi e può servire a spiegare il generale distacco tra scienziati e militari a fine guerra.

Corollario II: generalmente gli scienziati partecipano alla guerra non in quanto tali, ma come “cittadini” che difendono il “loro” paese. È vero, tuttavia, che in progress essi diventeranno stretti collaboratori dei militari e iniziatori di rapporti nuovi tra scienza e difesa, prefigurando ciò che avverrà venti anni dopo.

Corollario III:  anche quando si creeranno gli organismi di “invenzioni e ricerche”, gli scienziati vi avranno funzioni di consulenza sui progetti presentati dagli “inventori”. Raramente faranno ricerca in proprio.

Un caso a sé, rispetto alle precedenti considerazioni, è rappresentato per l’Italia dall’Istituto Geografico Militare (IGM) tradizionalmente dipendente dal Ministero della Guerra e che forse meriterebbe uno studio approfondito relativamente al capitolo dell’improvvisazione con cui i vertici dell’apparato politico gestirono la preparazione all’intervento. Risulta infatti incomprensibile come, esaurito l'ingente sforzo per il rilievo della grande Carta topografica d'Italia (primi del '900), si sia potuto prevedere un calo dei contributi finanziari all’IGM e una drastica riduzione del suo personale. I preparativi dell'entrata in guerra videro poi, in conseguenza della mobilitazione, un'ulteriore riduzione di personale, sostituito da altro (sia civile sia militare) del tutto improvvisato. E tuttavia, nel periodo bellico, l’IGM fu gravato di compiti onerosi, soprattutto in due campi: l'uno, presso i comandi in zone d'operazioni, con personale tecnico adibito al servizio cartografico ed alle determinazioni geometriche per i tiri delle artiglierie di assedio e per le altre necessità militari3; l'altro con l'incessante approntamento, aggiornamento ed approvigionamento del materiale cartografico. Di particolare rilievo il compito affidato all'IGM dal Comando Supremo per l'allestimento di circa trecento tavolette dei territori d'oltre confine, ridisegnate ed aggiornate da carte austriache e unificate a quelle italiane nei segni convenzionali. Né va infine trascurata l'attività addestrativa, destinata ad ufficiali di artiglieria (circa 300), sui procedimenti trigonometrico-topografici per la direzione del tiro.

Il paragrafo 1 è dedicato agli atteggiamenti (interventista e non interventista) di alcuni tra i matematici italiani più in vista del periodo. L’atteggiamento più frequente è quello interventista, in linea con la posizione della maggior parte degli intellettuali italiani del periodo.
Il paragrafo 2 è una rassegna della situazione italiana nel periodo del conflitto, che per l’Italia è limitato agli anni 1915-1918. Il lavoro di guerra svolto dai matematici viene principalmente analizzato attraverso le due figure di Vito Volterra e Mauro Picone, i due matematici – di generazioni diverse – che mostrano le maggiori evidenze di dinamismo scientifico e istituzionale. A loro abbiamo dunque dedicato maggiore attenzione anche in vista della fondazione dell’Unione Matematica Italiana (UMI) e del Consiglio delle Ricerche (CNR) da parte di Volterra, e dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo (IAC) da parte di Picone.
Si tratta delle tre principali istituzioni sorte in Italia nell’immediato dopoguerra e ad esse, e alle motivazioni dei proponenti, è dedicato il paragrafo 3, nel quale ci occupiamo altresì dei cambiamenti che alcune istituzioni (come il Circolo Matematico di Palermo) hanno subìto come conseguenza della guerra.
La carenza infine di documentazione e di pubblicazioni sul ruolo degli scienziati nella prima guerra mondiale, ci ha indotto a “far parlare” i documenti (principalmente lettere) contenuti in diversi archivi italiani.

 

1. I matematici e l'intervento

Al momento dello scoppio della grande guerra, nel 1914, l’Italia sceglie in un primo momento l’astensione. Entrerà in guerra un anno dopo, il 24 maggio 1915. In questi mesi, il dibattito nel Paese è estremamente acceso, come del resto si può facilmente immaginare. Pacifisti e inteventisti di diverse provenienze e con diverse sfumature, si confrontano con grande veemenza.
Il mondo matematico appare sufficientemente omogeneo e si schiera, in linea di massima, in favore di un interventismo democratico a fianco delle potenze dell'Intesa, contro la “barbarie germanica”. Significative al riguardo le parole pronunziate da Salvatore Pincherle nella manifestazione voluta da Volterra per onorare a Roma, dopo la vittoria, la memoria di alcuni matematici morti in guerra [AA.VV. 1918, p. 27]:

All'indomani del giorno fatale in cui le Potenze Centrali, svelando ad un tratto un disegno lungamente preparato, scatenavano sul mondo esterrefatto un turbine i cui orrori hanno sorpassato ogni immaginazione, i maggiori dotti della Germania, i capi di quell'esercito della scienza che si riteneva non conoscesse confini di nazioni, gettavano la maschera al pari dei loro governanti; ed un manifesto celebre4 che, se le idee cui s'ispira dovessero prevalere, segnerebbe davvero la bancarotta della scienza, dichiarava che le dottrine valgono in quanto giovano ad attuare quelle idee di egemonia che il militarismo tedesco si preparava a tradurre in realtà.
E se in quei giorni agli scienziati del nostro Paese, nella loro grande maggioranza, si è manifestato luminoso il convincimento che l'Italia non poteva essere assente dall'immenso conflitto, non fu solo per il sentimento che ora o mai essa poteva rivendicare quelle terre che le spettano per inoppugnabili diritti, non fu solo perchè ora si dovevano correggere gl'indifendibili confini imposti da iniqui trattati, non fu solo per la naturale simpatia per le Nazionalità oppresse o minacciate, ma anche perché l’etica rivelata dal proclama tedesco troppo urtava contro quella che era per noi la suprema idealità della scienza; perchè la scienza era stata da noi coltivata e venerata a patto che non divenisse monopolio di una razza ed istrumento di brutale dominio; perchè sentivamo che, prevalendo il disegno nemico, tutto quanto dalla scienza speravamo ed attendevamo sarebbe andato disperso.
Nell'animo dei più eletti fra i giovani nostri fratelli, quel convincimento si è tradotto in atto; essi abbandonarono gli studi che prediligevano, la Scuola in cui senza disdoro potevano continuare a prestare la opera loro, per impugnare le armi: e se nel combattere la loro vita fu infranta, essi lasciano alla Scuola il più splendido esempio, il più luminoso ricordo. Fra questi eletti noi commemoriamo oggi più d'uno dei nostri insigni matematici; ed è mio compito di richiamare a Voi, pur troppo con parola inadeguata, la figura di uno di costoro, di EUGENIO ELIA LEVI.

In questo quadro, tutto il lavoro, intessuto soprattutto da Vito Volterra negli anni precedenti e teso a sviluppare una rete di rapporti sempre più stretti con la matematica francese, dà ora i suoi frutti. E non è un caso che sia proprio Volterra il più impegnato, nel mondo matematico, a sollecitare un esplicito schieramento a fianco di Francia, Inghilterra e Russia. La sua corrispondenza è al riguardo estremamente significativa e non ha bisogno di alcun commento.
Non sappiamo cosa abbia scritto a Picard il 5 settembre 1914, ma il matematico francese sa di poter parlare a orecchie amiche. Ecco cosa gli scrive Picard in una lettera di risposta del 25 settembre 19145:

Caro amico,
sono stato depresso nel periodo in cui non ho risposto alla sua lettera del 5 Settembre. La ringrazio molto vivamente per i suoi calorosi auguri per il trionfo della Francia sui barbari, la cui condotta richiama le invasioni di un tempo. Il Tedesco, come ho sempre pensato, è civilizzato solo in apparenza; nelle cose più piccole è grossolano e privo di tatto, e molto spesso un complimento di un Tedesco si traduce in una gaffe enorme. Amplifichi questa grossolanità innata e avrà gli orrori che noi vediamo oggi. Inoltre, manca di franchezza e si serve di un groviglio filosofico per giustificare i suoi crimini; è tempo ormai che questo immenso orgoglio sia abbattuto e che l’Europa possa respirare per un secolo. Tutta l’Europa dovrebbe sollevarsi contro questi nuovi Vandali che pensano di sottomettere tutte le nazioni.

Non conosciamo il contenuto della lettera di Volterra a Picard qui richiamata, ma esso non doveva comunque essere molto dissimile da quello di quest’altra lettera a Gaston Darboux:

Caro Maestro
ho ricevuto da diverse parti sue notizie e ho saputo da Appell che lei era nei Pirenei ed era rientrato a Parigi all’inizio della guerra. Mi permetta di dirle che il mio pensiero è sempre rivolto, con l’attaccamento più profondo, a lei, ai maestri, i consoci, gli amici che ho in Francia. La vostra nobile e grande nazione lotta per la causa della giustizia e della civiltà. Tutti i miei voti sono per il successo e il trionfo della Francia.
L’atto con il quale i due imperatori hanno scatenato la guerra e la distruzione in Europa è stato considerato da me, e dalla maggioranza dei miei compatrioti, come un crimine abominevole. Le innumerevoli e barbare azioni compiute dai tedeschi durante la guerra hanno fatto accrescere l’orrore e l’indignazione del primo momento.
A mio avviso l’Italia deve prendere posto a fianco della sua sorella latina, la Francia, e dei suoi alleati, contro l’Austria e la Germania. Questo è il suo ruolo e la sua missione. Essa non deve mancarlo. Spero con tutto il cuore che ciò accada.
Ecco i miei voti e le mie speranze. Possano questi voti e queste speranze, così diffuse in tutte le regioni e tra tutte le classi d’Italia, realizzarsi e possano i nostri due paesi essre uniti sempre più per la libertà e la civiltà.

La lettera di Volterra è del 7 settembre 1914. Un mese dopo, il 4 ottobre, a seguito della reazione mondiale di condanna della Germania che aveva violato la neutralità del Belgio, 93 intellettuali tedeschi sottoscrivono e diffondono un manifesto per difendere con toni molto decisi le ragioni del proprio impegno patriottico, contro quelle che chiamano le distorsioni dell'opinione pubblica occidentale: «Credete pure che noi combatteremo questa battaglia sino alla fine come un popolo civile, cui l’eredità di un Goethe, di un Beethoven, di un Kant è altrettanto sacra quanto il suo focolare e la sua zolla»6.
Volterra riceve il documento da Otto E. Staude, un allievo di Klein.  Subito dopo, il 16 ottobre, un altro collega francese – si tratta in questo caso di  Emile Borel – gli scrive sollecitando una sua nuova presa di posizione in chiave anti-tedesca. La risposta di Volterra (24 ottobre7) è sollecita e conferma la sua piena adesione alla causa dell'Intesa. Ecco cosa scrive a Borel:

Mio caro Amico,
ho appena ricevuto la sua cara letetra del 16 Ottobre e mi affretto a risponderle. Le ho scritto intorno alla metà di Settembre una lettera in cui le chiedevo notizie su Gateaux8, Pérès, Boutroux e altri giovani amici francesi. Non ho ricevuto alcuna risposta e, dal momento che le non fa alcun cenno a quella lettera, essa deve essersi persa. A un mese di distanza non posso che confermare ciò che le scrivevo allora, cioè i miei auguri per il successo della Francia, la mia piùà viva simpatia per il suo nobile paese che lotta per la giustizia e la libertà e per la causa della civiltà contro la violenza dell’imperialismo più brutale e odioso. Le dicevo che il ruolo dell’Italia è, a mio avviso, quello di unirsi alla triplice intesa. Posso oggi aggiungere che la fiducia in questa unione non fa che aumentare, perché la simpatia per la Francia, l’Inghilterra e la Russia è da noi cresciuta. D’altra parte la persuasione che tutti i nostri interessi, sia dal punto di vista morale che politico, stanno dalla parte opposta a quella dell’Austria e della Germania, non fa che consolidarsi.
Lei ha ragione di desiderare un articolo già pubblicato, Le invio un articolo notevole che è apparso nella “Tribuna” del 6 Ottobre, il giorno dopo in cui è stato pubblicato l’appello degli scienziati tedeschi. L’articolo è siglato “Rastignac”, cioè Vincenzo Morello, molto noto tra i giornalisti italiani e molto apprezzato anche come autore di testi teatrali.
Credo che l'articolo di Rastignac sia proprio quello che le serve, Cercherò però se ce ne sono altri che potrebbero esserle utili.
Noi abbiamo avuto una massa di articolo d’ogni genere si quella che si è chiamata la “polemica nazionale” sulla questione della guerra e molte proteste contro la barbarie dei tedeschi, le loro violazioni delle convenzioni di la Haye e dei trattati e sulle distruzioni che hanno compiuto in Francia e in Belgio. A queste proteste si sono associati Università, Accademie, uomini politici, scienziati etc. Io ho sempre aderito a queste proteste, ma è quasi impossibile seguirle e raccoglierle tutte, tanto più che sono sparse un po’ dovunque nei giornali di Roma e della provincia e sono comparse nella maggior parte in forma di telegrammi e ordini del giorno.
Lei sa senza dubbio che Richet9 è stato molto festeggiato da noi. Le sue conferenze, alle quali ho assistito con molto interesse, avuto un grande successo e un grande numero di uditori. Egli è stato anche molto felice nella polemica contro l’appello degli scienziati tedeschi. Noi abbiamo aderito alle sue proteste.
Lei ha perfettamente ragione di esser sicuro del successo della causa della Francia e degli alleati. Tutto il mondo civlizzato è contro l’Austria e la Germania.
Da noi, io sono tra quelli più impazienti di uscire dalla neutralità, ma non dubito che anche coloro che hanno meno impazienza non possona mancare di avere le stesse mie speranze e aspirazioni.
Il mio voto è oggi lo stesso di quello formulato dopo l’inizio della geurra. L’Italia, la Francia e i suoi alleati devono unirsi contro il nemico che ha compiuto il crimine di scatenare la guerra e che voleva asservire l’Europa.

Anche gli intellettuali inglesi si mobilitano contro la propaganda tedesca. Già il 21 ottobre, 150 studiosi inglesi stilano un contro-manifesto per denunciare la Germania come “il nemico comune dell'Europa e di tutti i popoli”. Volterra subito conferma, in una lettera al fisico Joseph Larmor, la sua posizione:

         Caro Signore,
ho ricevuto il suo biglietto e la ringrazio dei suoi auguri che ricambio cordialmente. E vivamente li contracambio e li estendo anche a tutto il vostro grande paese verso il quale le simpatie già così grandi presso di noi sono ancora maggiormente accresciute nelle circostanze attuali.
Ho ricevuto da Sir Archibald Geikie vari opuscoli relativi alla guerra in cui si parla delle ragioni che hanno spinto l'Inghilterra nel conflitto, e della sua condotta verso il Belgio. fra essi vi è anche la lettera colla quale gli scienziati inglesi hanno risposto ai tedeschi.
Ho già risposto a Sir Archibald Geikie che per parte mia divido pienamente le idee manifestate dagli scienziati inglesi nella loro risposta e che è viva in me l'ammirazione per la condotta dell'Inghilterra sia verso il Belgio sia nel voler salvare l'Europa dall'aggressione dei due imperi tedeschi. E che la guerra sia derivata da una aggressione voluta e preparata dalla Germania e dall'Austria lo mostrano tutti i documenti comparsi.
Tali idee sono lieto che siano divise dalla gran maggioranza dei miei compatrioti e io non dubito che esse serviranno di norma alla condotta dell'Italia il cui intervento io mi auguro possa condurre a notevoli conseguenze.
Sono ben lieto di inaugurare l'anno 1915 col voto che i vincoli fra i nostri due paesi si facciano sempre più stretti.

L'atteggiamento di Volterra è lo stesso che ritroviamo, con minor fragore, anche in Guido Castelnuovo (1865-1952) e Federigo Enriques (1871-1946). Per quest'ultimo, le discussioni e le polemiche del 1914-'15 sulla posizione dell'Italia nel conflitto comportano le dimissioni da Scientia, la rivista che aveva fondato nel 1907 e che dirigeva con Eugenio Rignano. Tutto nasce da un'inchiesta promossa dallo stesso Rignano, che ritiene improponibile per una rivista di scienza “rinchiudersi entro la torre d'avorio della sintesi astratta” e “restare impassibile di fronte alla tragica realtà dell'ora presente”. L'inchiesta, iniziata  con l'obiettivo di realizzare una “ricerca oggettiva, serena, scientifica in una parola, delle cause e dei fattori della guerra”, scivola però verso posizioni più personali. Desta preoccupazione soprattutto un articolo di Rignano, I fattori della guerra ed il problema della pace, in cui l'autore – con l'Italia già in guerra a fianco dell'Intesa – non esita a parlare liberamente delle mire imperialistiche dell'alleata Inghilterra e delle sue responsabilità in ordine al conflitto. Enriques  chiede esplicitamente a Rignano di ritirare l'articolo e, di fronte al suo rifiuto, decide di abbandonare in modo clamoroso la direzione della rivista (che riprenderà solo nel 1930, dopo la morte di Rignano).
Nelle lettere indirizzate nell'occasione a Rignano non traspare la sua posizione sulla guerra, che invece può desumersi molto bene dalla corrispondenza con Xavier Léon, direttore della Revue de Métaphysique et de Morale10, e in particolare dalla lettera a lui diretta e datata 25 agosto 1914. Così Enriques scrive a Léon:

Caro Amico,
non voglio ritardare più oltre di esprimerle i miei sentimenti di simpatia calorosa per il suo paese in quest’ora tragica per l’Europa.
Mi trovavo in Svizzera, a Zurigo, quando la tempesta si è scatenata (...). Ho passato ore d’angoscia prima che la neutralità italiana fosse dichiarata; rientrando in Italia ho compreso che ogni altra decisione del governo sarebbe stata impossibile, poiché il sentimento di tutti gli Italiani, di ogni classe e di ogni partito, è unanime contro gli aggressori.
Se lei potesse vedere con quale ansietà si attendono qui le notizie della guerra e come il popolo intero fa voti per la salvezza della Francia, lei ne sarebbe toccato. D’altra parte, si è qui coscienti che l’atto di indipendenza compiuto verso la Germania, ci costerebbe caro nel caso in cui i tedeschi risultassero  vincitori. Ci si è preparati a essere attaccati a nostra volta ; ma se la pace non può essere mantenuta, che noi ci si trovi dal lato della civiltà e del diritto! È il pensiero intimo del popolo italiano al completo, la cui calma e il cui pacifismo nascondono insomma solo il proposito di contribuire anche noi – quando l’ora sarà suonata – all’opera di liberazione.
Caro Amico, voglia partecipare i miei sentimenti agli amici comuni ai quali si indirizza un pensiero nel monemto in cui la Francia offre al mondo uno spettacolo così bello di unità, di fermezza e di dignità. Come lei, ho fiducia nel successo finale, costi quel costi.

E qualche mese dopo, il 4 febbraio 1915, sempre Enriques aggiunge:

Riguardo all’avvenimento di questa guerra, nessuno sa bene a quale partito appoggiarsi. Lei sa quali sono le nostre simpatie e le nostre aspirazioni, non c’è forse che un piccolo numero di persone che non le condividono (sfortunatamente la filosofia di ispirazione hegeliana non si fa onore, essendo della minoranza dei simpatizzanti per la Germania). Ma io credo che la stampa italiana non dia un’idea corretta della situazione quando non sembra quasi occuparsi del trattato di alleanza. Nessuno conosce bene i nostri impegni, ma c’è da temere che il governo non sia completamente libero, salvo nel caso in cui i Tedeschi stessi commettessero il sorpruso di attentare ai nostri diritti o di minacciarci.

Il riferimento alla filosofia hégélisante, disonorata a causa delle sue simpatie filotedesche, è ovviamente diretto contro Benedetto Croce. Il filosofo napoletano, in una intervista concessa al Corriere d'Italia il 13 ottobre 1914, al giornalista che gli chiedeva se avesse “tenuto dietro, nei giornali italiani e stranieri, alle polemiche intorno ai rapporti della cultura italiana col pensiero francese e col tedesco”, aveva risposto seccamente di considerare quelle polemiche “come manifestazioni dello stato di guerra. Non si tratta già di quesiti razionali, ma di urti tra passioni; non di soluzioni logiche, ma di asserzioni d'interessi, che, sebbene altissimi, sono nazionali ossia particolari; non di ragionamenti, ma di finti ragionamenti, costruiti dall'immaginazione”11. Né mancava un attacco esplicito a quell'espressione – barbarie germanica – su cui tanto insistevano Volterra e gli intellettuali democratici12:

Credo che, a guerra finita, si giudicherà che il suolo d'Europa, non solo ha tremato per più mesi o per più anni sotto il peso delle armi, ma anche sotto quello degli spropositi. E Francesi, Inglesi, Tedeschi e Italiani si vergogneranno e chiederanno venia pei giudizî che hanno pronunciati, e diranno che non erano giudizî ma espressioni di affetti. E anche più arrossiremo noi, neutrali, che molto spesso abbiamo parlato, come di cosa evidente, della «barbarie germanica». Fra tutti gli spropositi, frutti di stagione, questo otterrà il primato, perché certo è il più grandioso.

Scelte simili a quelle di Volterra e di Enriques matura anche Francesco Severi (1879-1961), il terzo capo-scuola – assieme a Castelnuovo ed Enriques – della Geometria algebrica. L'intenso coinvolgimento nella ricerca non lo distoglie, in questi anni, da un significativo impegno sul terreno amministrativo e politico. A Padova, Severi è Direttore della Scuola d'Ingegneria, consigliere comunale e assessore socialista per l'Istruzione, membro della commissione comunale per il piano regolatore, presidente delle Aziende municipalizzate del gas e dell'acqua. La sua posizione può essere collocata in quel settore che la storiografia chiama dell'interventismo rivoluzionario e che accomuna posizioni interventiste di appartenenti a diversi movimenti rivoluzionari (socialisti, anarchici, sindacalisti, repubblicani, ecc.). Severi era un socialista ufficiale, com'egli stesso si definisce in un intervento apparso sul quotidiano L'Adriatico del 9 marzo 1915. È proprio questa sua presa di posizione pubblica che sancisce l'inizio del suo allontanamento dal Partito socialista, schierato su posizioni neutraliste:

Onorevole sig. Direttore, accolgo volentieri il suo cortese invito a partecipare alla discussione che l'“Adriatico” ha aperto sui doveri degli italiani, e specialmente dei veneti, in quest'ora tragica e decisiva della storia, anche perché a me, uomo di studio più che uomo di parte, sarà forse possibile di scriver parole che possan essere valutate serenamente da' miei compagni del partito socialista ufficiale, come dagli avversari, e che pertanto contribuiscano, sia pure in modestissima misura, a ricondurre a quel rispetto reciproco delle idee e a quella concordia degli animi, di cui qui nel Veneto, ancor più che altrove, c'è tanto bisogno.
Io spero e credo che l'atteggiamento degli organi direttivi del mio partito, in questo grave momento, sia l'espressione dello stato di angoscioso dissidio in cui ogni socialista d'intelletto e di cuore si trova fra gli imperativi ideali della propria fede e la percezione delle necessità ineluttabili dell'ora presente; piuttosto che indice di un proposito d'azione maturato e metodicamente perseguito.
Ma se così è, e se è pur vero, secondo io penso, che il partito socialista, come organismo politico, non potrebbe mai farsi promotore di un intervento guerresco, assai meglio parmi si provvederebbe, se la protesta socialista contro la guerra fosse, in ogni occasione, contenuta nel campo puramente ideale, riconoscendo nello stesso tempo la ineluttabilità d'una situazione che non ci è dato oggi di modificare, appunto perché deriva da condizioni sociali che il partito nostro non può cambiare di colpo.
Porsi da un punto di vista di assoluta negazione di problemi che esistono e che reclamano una soluzione indifferibile, significa lasciarsi cullare dalla ingenua illusione di poter violentare lo svolgersi dei fenomeni storici, e venir quindi, in ultima analisi, a contraddire a quello che è lo spirito animatore della dottrina socialista.
Un atteggiamento meno assoluto della Direzione del nostro Partito, sarebbe importantissimo anche dal punto di vista politico, giacché lascerebbe ad ogni inscritto la libertà di valutare gli elementi reali della situazione, secondo la propria coscienza di cittadino italiano, e nello stesso tempo consentirebbe ad ognuno di noi di continuare la propaganda socialista fra le masse, additando loro quali disastri immani conseguono dall'ordinamento capitalistico della società.
Io, che sono convinto della necessità dell'intervento dell'Italia a fianco della Triplice Intesa, sento di non aver mai provato un odio così implacabile contro la guerra - la quale non crea, ma sfrutta valori morali già esistenti; - né di aver mai desiderato, con altrettanto ardore, profondi rinnovamenti sociali, come da quando assistiamo alla spaventosa ecatombe di vite umane, all'enorme distruzione di ricchezza, all'acutizzazione del disagio economico del proletariato, al dispregio del diritto e delle bellezze dell'arte che la guerra europea trascina con sé.
Ma come non v'ha uomo cui la violenza ripugni, che ad essa non possa contro ogni sua voglia essere costretto; come non v'ha socialista che, vivendo e vestendo panni in questa società borghese, non s'adatti, nelle pratiche contingenze della vita, a ciò che l'ambiente gli impone senza che per questo egli rinunci a dar l'opera sua per un migliore domani, così non trovo vi possa essere contraddizione sostanziale fra la fede nei nostri ideali e l'azione che oggi cagioni storiche superiori alla nostra volontà possono prescriverci.
Vi sarà è vero, per chi ami dilettarsi in così tragico momento di quisquilie dialettiche, una contraddizione formale; ma sciaguratamente le più angosciose situazioni sentimentali si sciolgono di rado alla stregua della logica pura.
Eppoi il partito socialista non ha forse riconosciuto che nella pratica quotidiana conviene adattarsi ad un programma minimo e non evitare talvolta contatti con le frazioni più illuminate della borghesia, quando occorra, ad esempio, contrastare la vittoria di partiti i quali minaccino di prevalere in modo pericoloso per le libertà politiche, che costituiscono il presupposto delle conquiste economiche del proletariato?
E perché dovremmo racchiuderci in una formola d'intransigente negazione, proprio in una questione che di gran lunga trascende la importanza della minuscola politica d'ogni giorno, e che è in fondo ancora una questione vitale di libertà?
Giacché è ben vero che le cause di questa guerra sono giustamente capitalistiche, ma non si può disconoscere che, sia per le brutali violazioni del diritto naturale dei popoli compiute dalla Germania, sia per l'esistenza di molte questioni insolute, sia infine per l'interesse di alcuni belligeranti, e soprattutto dell'Inghilterra, affinché vengano rispettate le nazionalità minori (“L'interesse e il dovere spingono l'Inghilterra nella stessa direzione”, hanno scritto i professori dell'Università di Oxford), la guerra è andata acquistando, in modo prevalente, il carattere d'un conflitto fra due opposte concezioni dei diritti e delle forze, che debbono prevalere nel mondo moderno.
Inoltre, secondo la lettera e lo spirito della dottrina marxista, il socialismo potrà e dovrà succedere agli attuali ordinamenti, soltanto allora che la civiltà sia passata per tutte le fasi del suo sviluppo, tra le quali vi è appunto la conquista delle unità e delle autonomie nazionali. Di guisa che, per dirla con una frase scritta in questi giorni nell' “Avanti” da Enrico Leone, la Nazione diventa la porta d'ingresso dell'Internazionale.
E quando si parla della Nazione non ci si appiglia ad un “diversivo borghese”, poiché la Nazione è una formazione storica naturale, la quale vive nelle tradizioni di lingua, di arte, di cultura, di ciascuna razza, e sta al disopra e al di fori delle iniquità degli ordinamenti statali.
Riconosco come vi siano purtroppo molti, i quali, per le condizioni di inferiorità culturale e materiale in cui si trovano, non certo per colpa loro, non possono sentire tutto il valore spirituale dell'dea di Nazione; ma essi comunque non dovranno disconoscere che il dominio straniero rappresenta sempre un altro sfruttamento, da Nazione a Nazione, che viene ad aggiungersi allo sfruttamento del capitalista sul salariato.
Eppoi in qual modo si concreterebbe la solidarietà internazionale se, fino a quando non sarà più diffusa la coscienza della disastrosa follia degli armamenti, di fronte a tentativi di sopraffazione imperialistica a danno di altri popoli, non si fosse disposti anche a sacrifici di sangue?
D'altronde i socialisti, predicando l'avversione alle spese militari, hanno sempre presupposto la sincerità e l'efficacia della propaganda antimilitarista negli altri paesi, ed hanno inteso con ciò di cercar di diminuire la possibilità di conflitti armati fra i popoli, ma non già di negare le idealità nazionali. Allorché la Patria sia in pericolo, ancor più impellente sorge quindi per noi socialisti il dovere di difenderla, avvalorando agli occhi di chi ci considera utopisti, la nostra persuasione che dalla coscienza di un buon diritto possa - ove occorra - sprigionarsi la più grande delle forze.
Ed io credo per certo che sul riconoscimento di questo dovere, la stragrande maggioranza dei socialisti italiani sia senza esitanze concorde, anche se qualche eccesso polemico possa a taluno far supporre il contrario. Non imprigioniamoci dunque nell'adorazione di formule assolute, giacché il pericolo per il nostro Paese è insito nella grave situazione internazionale, la quale potrebbe trascinarci più tardi, anche nolenti, ad una guerra disastrosa per l'Italia e più particolarmente per il Veneto.
Prof. Francesco Severi,
dell'Università di Padova

P.S. - Ragioni varie hanno fatto ritardare per circa due settimane la pubblicazione di questa mia lettera. Non ho ora nulla da mutare, ma di fronte al fatto – segnalato anche ieri in queste colonne dall'amico Gino Piva – che le condizioni economiche del proletariato veneto vanno di giorno in giorno aggravandosi, in modo veramente doloroso e allarmante, desidero di aggiungere una parola di viva deplorazione per l'inerzia del Governo, il quale sembra non abbia capito e non capisca che la preparazione non deve limitarsi alle sole provvidenze militari. Come si potrebbe sperare che le masse popolari offrissero la necessaria resistenza morale e materiale, se la nostra regione dovesse essere assoggettata, dall'intervento dell'Italia nel conflitto europeo, ad altre e ben più dure prove?
Provvedimenti eccezionali (lavori e sovvenzioni dello Stato ai Comuni) urgono qui nel Veneto per fronteggiare la grave crisi. Altro che proibire i comizi!

         9 marzo 1915                                                                                                                                      F. S.

E quando finalmente l’Italia scende in campo a fianco degli Alleati, ecco la gioia di Picard (lettera a Volterra del 26 maggio 1915):

Mio caro amico,
La sua lettera recente mi faceva presagire il grande evento che si è prodotto. Abbiamo visto in Francia con gioia infinita l’Italia entrare nella grande lotta della Civiltà contro la Barbarie. Il nemico è ancora forte, ma è già ben toccato, e si può pensare che la resistenza accanita che dispiega si indebolirà improvvisamente. Qui noi consideriamo che la guerra sarà ancora lunga, perché è necessario arrivare fino alla fine in questa lotta titanica che supera di molto le più grandi guerre della storia. Molte rovine si saranno accumulate e molto sangue si sarà versato perché l’Europa goda di un lungo periodo di pace.

E quella di Hadamard (lettera a Volterra dell’1 luglio 1915):

Mio caro collega e amico,
È da molto tempo che volevo scriverle, dopo che ho avuto, da Pérès, da Richet e da latri, quanta pena lei si è data e quanto entisuasmo per il gran movimento che in questo momento anima l’Italia. Bisognerebbe dubitare dello slancio ammirevole di simpatia che i nostri giovani affermano con il sacrificio della loro vita, se noi non onorassimo, da parte nostra, l’occasione di richiamare e rinsaldare le prime relazioni, allacciate in un tempo in cui non supponevamo la barbarie tedesca.
Quanto a me, mi rendo utile come posso – e non è gran cosa – collaborando a un certo numero di ricerche tecniche.

Non mancano ovviamente, anche fra i matematici, posizioni di dissenso rispetto a questa linea maggioritaria, ma vengono per lo più affidate ai piccoli gesti della quotidianità professionale oppure alle comunicazioni private e personali. Corrado Segre (1863-1924), a Torino, è “in odore” di un neutralismo filotedesco e sembra praticare la massima del

“vivere come nel limbo dei Santi Padri, ignorando la guerra, privi di qualunque antipatia o simpatia per alcuno, salvo il dovuto rispetto ai tedeschi”.
Ora francamente io penso, che Hadamard sarà venuto in Italia per qualche cosa di più che una semplice esposizione di teorie analitiche; e che il metterlo a contatto con questi elementi potrebbe fargli riportare un'impressione del nostro paese, che non è quella che desideriamo13.

Della presenza di Hadamard siamo informati dalla sua corrispondenza con Volterra, il quale aveva espresso a Painlevé il desiderio di avere a Roma Hadamard per un ciclo di conferenze. Dopo qualche esitazione di Hadamard, restìo a interrompere il suo “lavoro di guerra”, le conferenze vengono fissate in numero di 6 per il periodo dall’1 al 15 maggio 1916 e riguardano le «Equations au dérivées partielles et problème aux limites qui s’y rattachent». Naturalmente l’occasione è stata cercata e voluta per stringere i rapporti tra i matematici dei due paesi e parlare della guerra in corso, in particolare, da parte di Hadamard, del problema «de l’opposition très vive que rencontre le mouvement pro-allié parmi la population juive des Etats-Unis», informare Volterra delle inziative intraprese in Francia e sollecitarlo a fare altrettanto in Italia. Alle conferenze di Hadamard, Volterra avrebbe voluto che partecipassero i matematici delle altre Università italiane (lettera a Hadamard del 18 aprile 1916):

Mio caro Amico,
Ho fatto fare una circolare che ho distribuito ai docenti di matematica delle Università per annunziare le sue conferenze.
Il ministro della Pubblica Istruzione ne ha parlato anche ai colleghi (Salandra e Sonnino) e se n’è ricevuta la migliore impressione.
D’accordo con Luchaire che ne aveva parlato al Direttore della Pubblica Istruzione a Parigi, ho telegrafato al Ministro a Parigi annunciando una lettera ufficiale che forse arriverà in ritardo a causa degli uffici dove le cose non vanno in generale molto veloci ; perché questa letetra ufficiale passerà attraverso il nostro ministero della Pubblica Istruzione.
Io sono sempre a Torino dove sono molto occupato per i dirigibili.
Viaggio con le linee aeree facendo viaggi molto lunghi.
Spero di vederla ben presto in Italia.

Con Segre, rimane fuori dal “coro” – unico vero dissonante rispetto alle posizioni interventiste di Volterra, Enriques, Severi, etc. – anche Tullio Levi-Civita (1873-1941), forse il matematico italiano più noto internazionalmente dopo Volterra, anch'egli socialista a Padova come Severi. Ma, a differenza di questi, il suo pacifismo non verrà mai meno per tutta la durata della guerra, provocando un notevole raffreddamento nei rapporti con Volterra: la loro corrispondenza, di solito molto cordiale, assume negli anni della guerra una formalità più eloquente di qualunque discorso. Levi-Civita non interromperà mai i rapporti con gli scienziati tedeschi, né mancherà di esprimere il suo neutralismo e il suo pacifismo ogni volta che se ne presenterà l'occasione14, soprattutto – come vedremo – nel dopoguerra.

 



2. La mobilitazione ed i contributi tecnico-scientifici