La malaria

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Leggi di stato: bonifica e chinino


La politica sanitaria del neo-Stato unitario trovava i suoi fondamenti nella precedente legge Rattazzi del 1859 su cui si formulerà il primo ordinamento sanitario italiano, stabilito con la legge del 20 marzo 1865. Nel perimetro di tale normativa, estensione quindi dell’orientamento sanitario piemontese,  si assetterà la sanità italiana sino alla legge Crispi del 1888. Questo quadro legislativo in vigore per un trentennio affida un ruolo meramente consultivo alle commissioni municipali di sanità e ai Consigli, presieduti  da sindaci, prefetti e sottoprefetti, e delega la scelta del sanitario alle autorità comunali, lasciando quindi alla decisione di funzionari e non di medici l’organizzazione sanitaria, nelle varie fasi che la compongono. In nuce si ritrovano qui dei difetti d’impostazione della politica sanitaria italiana che resteranno negli ordinamenti successivi, quello liberale-giolittiano e  quello di regime. Per quanto la legge Crispi migliorasse l’organizzazione igienico-sanitaria, introducendo l’obbligo di un regolamento d’igiene e le figure dell’ufficiale sanitario per i Comuni e del medico provinciale, gli enti locali –  e in particolare i Comuni – dovevano caricarsi l’onere economico della parte più numerosa della popolazione, da cui erano in parte sollevati Stato e Province. Evidente conseguenza risultava nell’inadempienza quando non in un vuoto totale da parte dei Comuni più piccoli nell’affrontare una vigilanza sanitaria o opere di risanamento. In questi limiti prenderà forma la legislazione antimalarica italiana, dando vita a un corpus di leggi comunque all’avanguardia, anche e soprattutto per un diretto coinvolgimento dei malariologi nel dibattito politico e nella stessa attività legislativa.
Premesse a questa legislazione una serie di inchieste che indicavano la stretta connessione tra la malaria e le gravi condizioni socio-economiche che affliggevano gran parte della popolazione italiana: L’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola italiana (1877) dal senatore della destra storica Stefano Jacini, già autore di studi sulla condizione agricola ed economica della Lombardia, e incaricato a più riprese di dirigere il Dicastero dei Lavori Pubblici nei governi Cavour, La Marmora e Ricasoli; L’inchiesta sulle strade ferrate (1879-1880) ad opera della commissione ferroviaria presieduta da Luigi Torelli  e L’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del Regno (1880) di Agostino Bertani. Proprio a seguito della sua Inchiesta sulle strade ferrate  il senatore Torelli costruiva con i dati raccolti dai 259 Consigli di Sanità e le amministrazioni locali una “Carta della malaria in Italia” (1882) grazie alla quale segnalava anzitutto l’esistenza delle “due Italie”: una settentrionale – con l’eccezione veneta – ove si registravano principalmente casi di malaria lieve, e una meridionale, comprendente anche la Maremma toscana e le campagne laziali, ove prevaleva la malaria grave. Bertani, igienista e deputato radicale, derivava dalla sua inchiesta la considerazione che le terre infestate da malaria grave erano localizzate nelle zone costiere, e conseguentemente portava questo dato a dimostrazione delle teorie miasmatiche allora in voga.    
La prima legge antimalarica italiana del 1878  (legge n. 4642) dispone su un caso locale, quello dell’Agro Romano: essa stabiliva il prosciugamento di stagni e acquitrini, principali focolai dell’infezione, con un impegno del governo per le grandi paludi e un carico diretto dei proprietari terrieri per quel che concerneva i piccoli interventi idraulici. Sempre sull’Agro Romano si legiferava nel 1883 (legge n. 1489), deliberando la necessità di una bonifica delle terre e impegnando i proprietari alla trasformazione agraria dei terreni, pena l’esproprio per pubblica utilità. Noto come “Legge Baccarini” (legge n.869), il primo provvedimento legislativo su scala nazionale del 1882 che stabiliva la bonifica, necessaria su 200.000 ettari del territorio italiano, a scopo igienico e per migliorare l’agricoltura. L’onere dell’intervento era suddiviso in due categorie: della bonificazione per una miglioria dell’igiene si facevano carico per il 50% lo Stato , mentre del 25%  i Comuni e le province; laddove il fine era un incremento dell’agricoltura se ne affidava la responsabilità ai proprietari, singoli o associati in consorzi. Le “due Italie” ebbero dispari benefici dall’applicazione della legge. A fruirne fu sostanzialmente il Nord della Penisola, preparato da un’organizzazione socio-economica più avanzata a ricevere la riforma e forte di una lungimirante borghesia imprenditoriale capace di approfittare dei finanziamenti. Qui l’opera di bonifica recuperò decine di migliaia di ettari, nonché rivalutò gran parte dei terreni. La “Legge Baccarini” impostata sul concetto di “bonifica igienica”, finalizzata a impedire la fermentazione dei germi malarici, restava ancora nell’alveo della teoria dei miasmi.  
Quasi alle soglie del XX secolo, una politica italiana sensibile alla “Questione sociale”, vale a dire alla ricezione del problema delle masse contadine del Paese, costrette a terribili condizioni di vita, è all’origine della promozione della distribuzione di Stato del chinino, riconosciuto come valido strumento di profilassi e di cura. Partigiano di una diffusione pubblica del chinino è Angelo Celli (1857-1914) che nel 1898 insieme a Giustino Fortunato e Leopoldo Franchetti riporta la questione in Parlamento, dopo due precedenti proposte di disegni legge del 1895 passati sotto silenzio. Nel 1900 veniva così approvata la legge n. 505 con la quale si autorizzava il Ministero delle Finanze a comprare la materia prima necessaria alla preparazione del chinino e a una sua rivendita pubblica attraverso farmacie e privative. Questa prima legislazione sul chinino soffrì delle resistenze dei farmacisti, minacciati nei loro interessi dalla mano statale che calmierava i prezzi dei preparati e dalla concorrenza delle privative. La legge tentava di ovviare a questo ostacolo disponendo che lo smercio dei preparati complessi a base di chinino fosse affidato alle farmacie e che i monopoli autorizzati alla vendita fossero sufficientemente lontani dalla farmacie. Gli utili della vendite del chinino sarebbero stati poi devoluti dal Ministero delle Finanze a un fondo per la lotta alla malaria. Ancora per iniziativa di Celli e Fortunati la legge n. 406, del 1901. Il nuovo provvedimento migliorava la precedente legge, grazie a un censimento delle zone malariche e alla definizione dei casi in cui la cura dei malati e l’opera di bonifica erano obbligatori. La cura dei malarici era principalmente a carico dei Comuni e delle Congregazioni di Carità; ne compartivano l’onere i proprietari terrieri le cui terre erano interessate dall’infezione. Lo Stato assumeva l’obbligo di proteggere dagli insetti le case dei dipendenti. La legge del1901 riconosceva inoltre la “morte per perniciosa” come infortunio sul lavoro, per quanto solo se dimostrata la mancata distribuzione del chinino. Le successive leggi del 1902 (n. 224) e del 1904 (n. 209) provvedevano alle mancanze di quanto prima decretato, ovvero il chinino gratuito anche per le famiglie dei coloni evidentemente predisposti all’infezione, e per la cura delle recidive. Nel 1907 tali disposizioni legislative vennero poi assorbite nel Testo Unico delle leggi sanitarie, con cui si precisava la definizione di zona malarica per quanto secondo un criterio che misurava i casi di malarici e non la presenza del vettore anofelico. Il regolamento unico limitava il boicottaggio delle farmacie, pena la revoca della concessione dell’esercizio; qualora l’Intendenza di Finanza avesse appurato l’infrazione lo smercio del chinino sarebbe stato trasferibile in seguito alle vicine privative. Di epoca fascista la legge n. 831 del 1933 con cui si estendeva ulteriormente la gratuità del chinino alle persone non risiedenti stabilmente in zona malarica, che avevano contratto la malattia nei luoghi di lavoro.      
Quanto al risanamento igienico tramite opera di bonifica, esso fu riconcepito all’interno di una nuova logica, che abbandonate le teorie miasmatiche si avvaleva delle nuove scoperte sulla trasmissione della malattia, e che quindi tendeva a un’eliminazione di quei luoghi in potenza focolai del vettore anofelico, attraverso un controllo delle acque e un superamento dei metodi agricoli arretrati, in particolare quelli estensivi. Già nella legge sul chinino di Stato del 1901, Baccelli faceva introdurre un emendamento a favore delle bonifiche idrauliche. Il decreto regio del 1923 n. 3256 insisteva su una bonifica delle grandi paludi e sulla manutenzione dei canali, nonché sulla necessità della “piccola bonifica”, con interventi anti-anofele sulle acque scoperte. Il provvedimento rivestiva grande importanza soprattutto per le zone meridionali e insulari del Paese, ove il regime delle acque era disastrato dall’irrazionale sfruttamento ambientale. 


 

La carta della malaria in Italia di Torelli, 1882.

 

Distribuzione del chinino nell’agro romano. (archivio Guido Casini)