La malaria

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Recrudescenza della malaria negli ultimi due decenni dell'Ottocento


L’Italia, da sempre terra malarica, assiste sul calar dell’Ottocento a una recrudescenza della malattia su scala nazionale, con picchi nelle zone meridionali e insulari del Paese e in alcune aree costiere. L’unificazione della Penisola, dal Medioevo frammentata in varie unità politico-statuali che si assettano in Età tardo-moderna in due macro-regioni, la settentrionale e la centro-meridionale e insulare, distinte quanto a orientamenti politico-amministrativi ed economici,  fatica nella ricucitura di questo strappo storico. Negli anni a venire si profilerà una “Questione meridionale”, e una questione meridionale segnerà anche la storia della malaria e di una sua eradicazione in Italia. Ciò detto, tra il 1872 e il 1881 l’aumento della mortalità per malaria affligge l’intera penisola, quasi in termini pandemici. Un primo fattore che spiega tale recrudescenza è riconducibile alle particolari condizioni meteorologiche del periodo: straordinarie piovosità e umidità favoriscono infatti la riproduzione delle zanzare vettrici della malattia. Altre cause seguono paradossalmente l’opera di miglioria del neo-Stato unitario. La costruzione della rete ferroviaria da un lato, la bonifica delle aree malariche dall’altro, oltre a lasciare dietro di loro scavi e allagamenti, ennesimi luoghi di riproduzione del vettore malarico, generano migrazioni di popolazioni dalle zone collinari salubri alle aree infestate. Nel Centro-Sud le zone montane e collinari sono inoltre sempre più interessate da un’opera di disboscamento. Proprio nelle regioni meridionali del Paese va quindi ad accentuarsi lo squilibrio di risorse umane ed economiche tra zone salubri e insalubri, vale a dire tra le montano-collinari e le valli malariche.  Nel Nord infatti forme più lievi di malaria permettevano un ritorno alla pianura delle popolazioni; al Centro-Sud e nelle isole invece la ripopolazione delle pianure appariva impraticabile. Le popolazioni concentrate nelle zone collinari contribuivano con lo sfruttamento ambientale alla formazione a valle di paludi malariche. Migrazioni stagionali proprio nel periodo estivo – punta massima dell’infezione malarica –  si imponevano comunque per la ricerca di lavoro, spesso impostato sulla logica del latifondo. Proprio la malaria frenava poi una colonizzazione delle aree costiere. Un infelice primato in tal senso è detenuto dalla Sardegna: la patologia malarica si diffonde sino a divenire emergenza nel secondo decennio della storia unitaria; l’infestazione non si limita alle zone costiere o paludari ma arriva sino alle colline e agli altipiani. Gli elementi di modernizzazione introdotti dallo Stato Sabaudo, poi dal Regno d’Italia, quali l’eversione della feudalità (1836-1839) e la conseguente privatizzazione delle terre, il ripopolamento delle zone costiere e l’introduzione di un’economia di mercato, rompono antichi equilibri sociali e ambientali, pur non apportando un significativo sviluppo. L’imperfetta dinamica del passaggio a un’economia agricola individualistica porta a un cambiamento dei rapporti sociali, a un aumento demografico, a una riduzione delle terre di pubblico dominio e a una conseguente attenzione della povertà agricola e pastorale verso quelle terre libere proprio perché malariche.

La legislazione sanitaria italiana, che già in epoca pre-unitaria si era interessata alla soluzione del fenomeno malarico, stentava quindi a trovare applicazione nel Centro-Sud, che vedrà infatti un’eradicazione definitiva della malattia quasi a un secolo dall’Unità del Paese.




(Foto Archivio Guido Casini e Museo Storico della Didattica).
 

 

 

(Foto Archivio Guido Casini e Museo Storico della Didattica).

     
 

(Foto Archivio Guido Casini e Museo Storico della Didattica).

 

F.Vitalini, Capanne a Terracina, 1890.