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L’epilessia sperimentale nella ricerca italiana, contributi allo sviluppo della neuropsicologia

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breve biografia di Amantea dal sito della Treccani

 

 

biografia di Penfield

 

L'epilessia sperimentale dai primi studi alle ricerche della scuola neurologica romana

 

Gli studi sperimentali sull’epilessia hanno conosciuto un grande fiorire nei primi decenni del Novecento. L’epilessia sperimentale tentava di esaltare attraverso gli studi di laboratorio e l’approccio scientifico le straordinarie possibilità di indagine che questa patologia, eccezionale esperimento della natura, aveva già rivelato agli studiosi sin dall’alba della medicina. Non è un caso che Ippocrate formula la prima ipotesi di collegamento tra eventi cerebrali e psicologici affrontando il tema dell’epilessia nel trattato il Male sacro.
Come postulava Moruzzi nella monografia Epilessia sperimentale del 1941, il programma di ricerca dell’epilessia sperimentale partiva dalla fisiologia generale per approdare alla comprensione di problemi clinici, passando per questioni di fisiologia speciale e specifici problemi neurofisiologici. Per la fisiologia generale, l’opportunità più sentita era l’approfondimento delle conoscenze elettrofisiologiche, resa eventualmente possibile dall’individuazione della differenza tra l’attività elettrica di una cellula nervosa normale e quella di un neurone in stato convulsivo. Sempre dal punto di vista della fisiologia generale, l’epilessia sperimentale poteva contribuire alla migliore comprensione della coordinazione e della modulazione reciproca dell’attività delle cellule nervose, attraverso l’osservazione della propagazione dell’accesso epilettico e del coordinamento dei neuroni nello stato convulsivo. Dal punto di vista particolare e come elementi di fisiologia speciale, l’epilessia sperimentale poteva offrire un punto di vista privilegiato per lo studio delle connessioni e dei rapporti funzionali in gioco nei livelli superiori dell’organizzazione cerebrale.
Per queste ragioni l’epilessia sperimentale ha dato formidabili contributi allo sviluppo di particolari settori delle neuroscienze, in primo luogo alle discipline neuropsicologiche, alla ricerca sulle localizzazioni delle funzioni cerebrali, alla scoperta della loro lateralizzazione emisferica, al disvelamento delle interazioni interemisferiche, al problema dei rapporti tra attività cerebrale e coscienza.
L’epilessia sperimentale si fondava metodologicamente sull’artificiale innesco della scarica epilettica attraverso la somministrazione di stimolazioni elettriche o farmacologiche. L’Italia doveva diventare uno degli stati all’avanguardia in questo tipo di ricerche.
La prima fondamentale acquisizione ottenuta con tecniche di epilessia sperimentale era quella di Fritsch e Hitzig nel 1870. I due, ufficiali medici tedeschi nella guerra franco-prussiana, applicavano la corrente galvanica alla corteccia cerebrale in soggetti caduti sul campo di battaglia ed osservavano che la stimolazione di certe aree provocava movimenti negli arti controlaterali. In seguito a questi osservazioni essi studiavano gli effetti della stimolazione della corteccia sui cani con tecniche vivisettive, localizzando così le aree motorie e constatando altresì che una stimolazione sufficientemente forte e prolungata portava alla diffusione dei movimenti ad altri gruppi muscolari ed infine ad un accesso convulsivo.
Questo metodo fu successivamente utilizzato anche negli uomini, in particolare durante le operazioni chirurgiche per la rimozione dei focolai epilettogeni, al fine di individuarne l’esatta localizzazione sulla corteccia cerebrale. I dati acquisiti con questa procedura pre-operatoria sono serviti a tracciare la mappa della rappresentazione corticale delle funzioni motorie e somatosensitive. Per chi volesse approfondire questa parte rimandiamo alle pagine del sito dedicate a Wilder Penfield e alla scuola neurologica di Montreal.
La stimolazione corticale aveva ovviamente anche un immediato valore in clinica. Essa permetteva infatti di riprodurre i diversi tipi di attacchi epilettici focali e di studiarne quindi i meccanismi patogenetici. Tale metodica venne quindi utilizzata sugli animali soprattutto per indagare l’attacco epilettico generalizzato, anche denominato Gran Male, il significato e i rapporti delle sue componenti e fasi. I movimenti tonico-clonici costituiscono una tipica successione di meccanismi motori della crisi epilettica generalizzata. Nel Grande Male si manifesta una prima fase tonica di circa venti minuti caratterizzata da irrigidimento di tutta la muscolatura. Questa si risolve gradatamente nella fase clonica, in cui invece si alternano periodi di decontrazione progressivamente più lunghi. All’inizio del secolo scorso si ipotizzava che la fase tonica dipendesse dai centri sottocorticali e quella clonica un’origine corticale.
Nel 1904, N. Samaja usava per primo una forma di elettroshock negli animali, applicando corrente alternata all’esterno del cranio, con due elettrodi posti alla bocca e posteriormente in zona occipitale. Egli constatava che se veniva eseguita una precedente decorticazione bilaterale, l’accesso che si manifestava aveva carattere esclusivamente tonico; se invece l’asportazione della corteccia motoria era parziale, si avevano ancora movimenti clonici ma solo nei muscoli innervati dalla corteccia motoria illesa. Sulla base di queste evidenze, Samaja affermava che la corteccia esercitava una azione inibitrice sui centri sottocorticali e quindi sulla contrazione clonica. Moruzzi contestava questa ipotesi, convinto che le due fasi dell’attacco del Grande Male non fossero espressione dell’attività di diversi gruppi neuronali ma manifestazione di diversi livelli di eccitabilità degli stessi neuroni, in particolare che la fase clonica rappresentasse l’esito del progressivo esaurimento delle cellule nervose coinvolte nella scarica epilettica. Nelle sue indagini, Moruzzi si era avvalso anche delle tecniche di epilessia sperimentale riflessa, un protocollo sperimentale messo a punto dalla scuola neurologica romana creata da Luigi Luciani nei primi anni del Novecento e che annoverava, tra gli altri, Silvestro Baglioni, Giuseppe Amantea e Antonino Clementi.


L’epilessia sperimentale riflessa e le ricerche della scuola romana di neurofisiologia

Nel 1909 Baglioni e Magnini avevano osservato che la stimolazione locale della corteccia con stricnina era in grado di evocare scosse nell’arto controlaterale e che l’applicazione della sostanza abbassava notevolmente la soglia di somministrazione dello stimolo elettrico necessario ad indurre un attacco convulsivo, caratterizzato da contrazioni cloniche dei muscoli controlaterali all’area stricninizzata.

L’efficacia di qeusta combinazione di stimoli induceva Amantea ad approntare un esperimento di epilessia sperimentale associando la stimolazione chimica della corteccia alla stimolazione sensitiva relativa alla stessa area corticale. Sviluppando questi esperimenti, nel 1920, Amantea rilevava che la crisi convulsiva poteva essere innescata anche dalla stimolazione meccanica della cute relativa all’area corticale trattato con la stricnina. Amantea aveva così scoperto l’epilessia sperimentale riflessa, anche detta perciò, epilessia di Amantea. Nove anni più tardi, Antonino Clementi riusciva ad ottenere un accesso convulsivo generalizzato applicando stricnina su aree corticali sensitive e sottoponendo l’animale alla stimolazione degli specifici recettori sensoriali, un quadro accessuale per questo chiamato epilessia sensoriale riflessa di Clementi.

I dati acquisiti da Amantea e Clementi erano di grande interesse per la clinica e si tentò di correlarle su quanto si sapeva delle manifestazioni dell’epilessia, del suo decorso, delle relazioni tra attacchi focali e accessi generalizzati; di utilizzarle per individuare eventuali predisposizioni verso la malattia.

Di importanza ancora maggiore, l’utilizzazione delle ricerche di epilessia sperimentale della scuola romana per lo sviluppo delle conoscenze sulle interazioni tra emisferi cerebrali. Nelle sue ricerche del 1920, Amantea aveva dimostrato che i focolai epilettogeni localizzati nelle varie regioni cerebrali risentono dei diversi stimoli scatenanti in misura proporzionale alle connessioni con le vie afferenti stimolate. Successivamente, nel 1935, Mario Gozzano e quindi nel 1939 Giuseppe Moruzzi dimostravano elettroencefalograficamente il ruolo delle fibre di connessione tra emisferi nella generalizzazione dell’accesso epilettico e dell’effetto della disconnessione tra emisferi nei confronti della sua propagazione da un emisfero all’altro.

Scatendando una crisi epilettica mediante l’applicazione diretta di irritanti chimici e fisici, Gozzano e Moruzzi evidenziavano che le attività elettriche abnormi della corteccia, inizialmente unilaterali, tendono a propagarsi all’area omologa dell’altro emisfero. Le indagini di Moruzzi, ancora, dimostravano per la prima volta che i focolai epilettici tendono ad evocare l’instaurarsi di un altro focoalio epilettico nella regione speculare dell’emisfero opposto, un mirror focus. In questo senso, il mirror focus, che inizialmente possiede la semplice forma di una risposta evocata dalle salve commessurali che originano nell’area accessuale primaria, finisce per sviluppare una propria attività parossistica, indipendente dal focoalio controlaterale primario. L’operazione di resezione del corpo calloso, struttura di connessione tra i due emisferi, che Gozzano e Moruzzi eseguivano sugli animali per verificare il ruolo delle commessure nella generalizzazione dell’attività convulsiva, tuttavia, impediva sia il passaggio transemisferico della scarica epilettica, sia, chiaramente, l’instaurarsi del mirror focus. I due italiani avevano così dimostrato che il corpo calloso e le commessure del telencefalo rappresentano la via primaria per la propagazione della scariche epilettiche.

 

Letture consigliate

Giuseppe Moruzzi, L' epilessia sperimentale, Bologna : N. Zanichelli, 1946

Hitzig

 

Fritsch

 

 

Penfield

 

 

preparazione un intervento di chirurgia dell'epilessia

 

 

Homunculus motorio di Penfield