La malaria

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Prime teorie mediche. Mal'aria

L’associazione tra malaria e esalazioni di aria morbifica è di antica memoria: già nella seconda metà del V secolo a.C., Ippocrate esplicitamente pose un legame tra sintomi verosimilmente di infezione malarica e ambienti palustri. Galeno, medico romano del II secolo, attribuì ai “miasmi” la causa delle epidemie di febbri intermittenti, pur non identificandone la natura: tra le varie ipotesi le acque palustri, il vapore di escreti, la putrefazione di corpi organici. La medicina umorale ippocratica indicava come possibile terapia delle febbri una dieta alimentare, a base di liquidi: farinata di orzo, soluzioni di acqua e miele o di aceto e miele, che dovevano portare a uno stato di semi-inedia, riducendo la quantità di sangue e bile nel corpo. 
Galeno, in ragione delle teorie umorali, secondo cui il corpo umano era costituito da un equilibrio di umori, proponeva una cura mediante salasso, una pratica in uso per secoli, tanto da essere associata dai medici alla somministrazione del chinino nel primo Novecento. A fianco dell’interpretazione ippocratico-galenica e dei suoi rimedi, si pongono le credenze popolari dell’ambiente contadino italiano, afflitto per secoli in modo endemico dalla malattia.  I contadini associavano i cicli dell’epidemia malarica al proprio quotidiano estivo: il consumo delle more, il lavoro dei campi, ancora le acque palustri, e le zanzare. Esisteva anche una terapia popolare, a base di preparati di vino misto a miele, o a noci, o a papavero; nei percorsi notturni si tenevano sotto il naso aglio o aceto. Più vicini alla pratica magica che a una medicina popolare, l’ingestione da parte del malato di cimici o fegato di topo, o gli amuleti di rettili vivi. Ancora nel 1910 nelle Paludi Pontine si praticava l’infornata, vale a dire la ripetuta introduzione di un bambino malato in un forno, ove era stato sfornato il pane.      
L’etimologia del termine “malaria” è in parte suggeritrice delle passate concezioni sulla malattia e sulle sue cause; concezioni così a lungo radicate non solo in un immaginario collettivo, ma anche in ambiente scientifico da far rifiutare la sostituzione della parola con un termine più adeguato e conforme alle scoperte sulla reale eziologia, come proposto nel 1931. I dizionari etimologici della lingua italiana la fanno infatti risalire a un’espressione molto assonante, “mal’aria”, certamente in uso nel 1571 a Venezia. È invero così attestata in un trattato di agricoltura di Giovanni Tatti, pseudonimo di Francesco Sansovino, nel 1560. Già nel 1440, il veneziano Marco Cornaro utilizzava “mal aere” o “mal aire” per descrivere quell’aria cattiva, corrotta, della laguna, laddove l’immissione dei fiumi creava zone palustri, causa di “molta febre”. Era infatti convinzione veneziana che “mal aere” fosse strettamente legata ad acque “meschizze”, ossia salmastre. Proprio l’ambiente palustre ospita i focolai dell’agente trasmettitore della malaria nel Veneto, l’Anopheles sacharovi, come si riconobbe poi nel Novecento.
La locuzione “mal’aria” si attestò anche in altre regioni d’Italia. L’Agro romano, terra malsana ma di straordinario fascino per i viaggiatori del Settecento, lascerà in qualche modo il prestito linguistico alla letteratura inglese, per tramite dello scrittore neo-gotico Horace Walpole che nel 1740 descriveva in un’epistola con questa espressione locale la terribile malattia, causa di morti ogni estate. Proprio in ragione di una maggior attinenza tra termine e causa della malattia, la letteratura medica anglosassone acquisisce nel primo Ottocento il vocabolo “malaria” (con la caduta dell’apostrofo) in sostituzione del nome indigeno “ague”, attestato sin dal XIV secolo, con cui si descrivevano le febbri intermittenti. Di lì a poco, anche in Italia, la locuzione mal’aria lasciava il posto all’attuale malaria, in un trattato storico del 1838 sulle febbri intermittenti a Roma di Francesco Puccinotti. In Francia si preferiva il derivato latino “paludisme”, mantenuto ancora nel francese contemporaneo. L’ipotesi eziologica affermata all’epoca faceva ancora derivare la malattia dalle esalazioni palustri, i miasmi, la cui natura velenosa era originata da decomposizioni di materiali organici; una sorta di “gas malarico” come citato in molte fonti inglesi all’origine non solo delle febbri intermittenti ma anche di malattie quali la febbre tifoidea, la febbre gialla, il colera. In ambito medico tuttavia una prima intuizione sulla zanzara come trasmettitore della malaria era stata prefigurata, per quanto ancora all’interno della dominante ipotesi miasmatica,  da Giovanni Maria Lancisi (1654-1720). Medico papale e professore alla Sapienza, Lancisi nel suo De noxiis paludum effluviis, eorumque remediis (1717) distingueva gli effluvi miasmatici in inorganici e animali, tra cui le zanzare che introducevano con il morso “un liquido velenoso” nei vasi sanguigni.  La soluzione avanzata era quindi una bonifica idraulica, attraverso il prosciugamento di stagni e paludi. Giovanni Rasori (1766-1837), “medico giacobino”, professore a Pavia, faceva eco a Lancisi, riprendendone l’intuizione sul ruolo della zanzara nella trasmissione della malattia. Intuizione che resterà lettera morta ancora per grossa parte del secolo. 

Il termine “malaria” divenne sinonimo della malattia solo nel tardo Ottocento. Il passaggio semantico è attestato nell’opera La malaria a Roma del 1878: autore ne è Guido Baccelli. 

IV secolo a.C.
 
XV sec.

Tra i rimedi alle febbri intermittenti in uso nel Medioevo, i fiori di finocchio. Miniatura del XV sec., Biblioteca Castrense di Roma.


Già nel IV secolo a.C. Ippocrate riconosceva una tipologia febbrile "terzana" e una "quartana", e associava l'ingrossamento della milza alle acque stagnanti di palude.