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Capitolo III - La Matematica italiana nel cinquantennio 1890-1940

Parte 3 - La matematica italiana nel periodo tra le guerre



2. La legittimazione sociale

È noto, e lo ha sottolineato Ancarani in un efficace saggio di qualche anno fa (1989), che l'Università ha rappresentato il luogo privilegiato di “legittimazione” per gli scienziati italiani e per i matematici in particolare. Per un complesso di fattori, questi ultimi finirono per accumulare un discreto capitale accademico che divenne presto oggetto, come si è visto, di particolare attenzione (e in qualche caso di aggressione) da parte degli altri gruppi disciplinari che avevano urgente bisogno di cattedre, unico mezzo per assicurare continuità e sviluppo alle proprie ricerche. Se a questo primo attacco alla legittimazione dei matematici, di cui si è fatto cenno nell'introduzione, si aggiunge quello, ugualmente importante, sviluppato dai filosofi idealisti mirante a negare il valore culturale della matematica (e della scienza più in generale), si capisce facilmente l'entità del compito che i matematici dovettero assumersi per affrontare un dibattito veramente ampio e che avrebbe avuto bisogno della massima compattezza possibile e di una direzione adeguata. Spiegare in primo luogo ai loro colleghi scienziati e poi a tutto il Paese il valore culturale della matematica e la sua “utilità”, sia sul piano formativo generale sia su quello delle applicazioni, industriali o finanche militari (come testimoniavano le necessità drammaticamente esplose nel primo conflitto mondiale), fu un compito cui i matematici italiani non poterono sottrarsi. Purtroppo, però, parteciparono a questo dibattito in ordine sparso e con profonde spaccature, con l'UMI che non riuscì a diventare la “mente” collettiva, capace di portare a sintesi unitaria le diverse e non necessariamente incompatibili articolazioni del discorso.
Quando, di fronte al fascismo che spingeva verso le applicazioni pratiche della scienza, Michele Cipolla, Michele de Franchis, Federigo Enriques, Gaetano Scorza e più ancora Severi33 si impegnarono in una vigorosa difesa della matematica pura, lo fecero con argomentazioni certamente corrette, ma spesso confusero il piano dei contenuti con quello degli obiettivi. Non si tentò di segnare territori e confini di ciò che poteva intendersi per matematica applicata, né si cercò di chiarire che il lavoro in tale settore poteva svolgersi nell'uno o nell'altro di due stadi diversi tra loro, quello della ricerca e quello delle applicazioni34. Confondendo questi due diversi piani, Severi tentò di codificare una gerarchia nella quale le ricerche di matematica applicata fossero, di fatto, poste ai margini della comunità o costrette a svilupparsi da essa separate. Né questa conclusione mi pare inficiata dal caso di Giulio Krall (1901-1971), forse l'allievo migliore di Levi-Civita e l'unico la cui attività tecnica sia stata accettata “dai grandi matematici della scuola romana”. Alla fine, lo si è accennato nel paragrafo precedente, anche Severi chiamò Krall all'INDAM, ma ciò avvenne dopo la crisi provocata dalle leggi razziali del 1938, data fino alla quale gli unici incoraggiamenti vennero a Krall da Levi-Civita, da Volterra e da Picone. La posizione di quest'ultimo, nel decennio precedente le leggi razziali, appare ben diversa da quella di Severi, senza però che tale diversità nulla significhi riguardo ai rapporti col fascismo. Cogliendo, anzi, tutte le potenzialità implicite nella politica “autarchica” del regime, nel suo martellare sulle implicazioni pratiche della scienza, Picone scelse pragmaticamente la strada di insistere, a livello propagandistico, sulle applicazioni della matematica, pur continuando in concreto a sviluppare la ricerca pura. Picone non oppose alcuna riserva alla trasformazione, anzi la stimolò, del suo piccolo istituto universitario di calcolo in un istituto autonomo del CNR e, dopo tale trasformazione, pur continuando a propagandare l'INAC come istituto di servizio, seppe creare un nucleo consistente di ricercatori e di ricerche il cui valore intrinseco è ben documentato. E tutto ciò appare un “vantaggio” ben più proficuo per la disciplina che non la difesa intransigente che Severi sempre operò del capitale accademico accumulato dai matematici. A coloro che, come gli scienziati sperimentali, avevano urgente bisogno di cattedre, non bastava dire che esse non andavano tolte ai matematici; occorreva almeno offrire una disponibilità concreta per una battaglia comune, come era stato obiettivo di Volterra prima della sua emarginazione. L'obiettivo unificante non poteva essere quello (antico e risibile, visti gli esiti) di abolire qualche università o qualche facoltà, ma doveva essere una diversa e più moderna articolazione dell'organizzazione della ricerca in Italia, modellata possibilmente, com'era aspirazione diffusa, sull'esempio tedesco. Picone fu sempre disponibile a tale battaglia, mentre la maggior parte dei matematici italiani scelse tutt'altra via. Convinti che l'Università era un punto di forza per la loro “riproduzione”, non capirono l'importanza di sperimentare nuove forme organizzative distinte da quella universitaria e finirono con l'isolarsi dal resto della comunità scientifica.
In un contesto così variegato e complesso conviene, come già s'è fatto nel paragrafo precedente, procedere per grandi schemi e analizzare separatamente i contributi dei matematici italiani volti a recuperare il terreno della legittimazione per valore culturale da quelli rivolti più esplicitamente al tema dell'utilità. Con ciò non si vuole affatto avallare la convinzione che fossero due terreni diversi e per certi versi antitetici: ripetiamo la convinzione che sono da considerare come due aspetti diversi dello stesso problema e che sarebbe un grave errore storiografico quello di considerarli completamente scissi l'uno dall'altro, come spesso fecero i protagonisti. Quello che infatti vedremo nei due successivi paragrafi è uno strano balletto fra chi, come Scorza e più ancora Severi, punta maggiormente l'accento sulla legittimazione per valore culturale, recuperando la metafora di Jacobi secondo la quale “una questione di teoria dei numeri vale quanto una questione del sistema del mondo”, e chi, come Picone, si fa strenuo difensore della legittimazione per utilità, che aveva pari dignità strategica del primo elemento e maggiore valenza tattica dal momento che bene si sposava con la politica “autarchica” del regime. A posteriori, la posizione dei primi può sembrare più lungimirante, nella misura in cui l'insistere sul valore culturale della matematica, difendendone il nucleo centrale rappresentato dalla “purezza”, aveva anche il pregio di attaccare alcuni pregiudizi della cultura dominante. Ma si deve riflettere sul fatto che Picone, meno attento forse sul piano culturale complessivo, si muoveva tuttavia in sintonia con le tendenze del movimento matematico mondiale. Il suo progetto però, proprio perché si saldava alla politica autarchica del regime, rischiava di rimettere in gioco gerarchie interne alla matematica italiana lungamente consolidate: ciò spiega, a parere di chi scrive, come anche tatticamente Severi non potesse consentire a che si parlasse in Italia di “matematica applicata” e non solo di “applicazioni della matematica”.

 

2.1 La legittimazione per valore culturale

Per valutare il terreno scelto negli anni '20 e '30 da alcuni matematici italiani per sottolineare il valore culturale della loro disciplina occorre brevemente accennare a due fatti salienti del contesto in cui essi si trovarono ad operare: a) la tradizione italiana della filosofia accademica, quasi sempre agnostica sul terreno dei problemi epistemologici, che implicava la convinzione degli scienziati che la filosofia nulla avesse da dire alla scienza e che loro stessi dovessero occupare quel terreno; b) il fatto che attorno alla fine degli anni '10 si era consumato clamorosamente il distacco fra la corrente filosofica che diventava egemone in Italia, l'idealismo di Croce e Gentile, e una concezione della scienza, portata avanti – pur se con diverse articolazioni – principalmente da Enriques e Giovanni Vailati (1863-1909), tendenzialmente innovatrice rispetto al positivismo e mirante a saldare il concreto “fare” scientifico a problematiche filosofiche più ampie. Dopo il celebre scontro del 1911 fra Croce e Gentile da un lato ed Enriques dall'altro, conclusosi con un clamoroso divorzio, i matematici italiani furono costretti alla difensiva e a registrare che il fossato era per il momento incolmabile.
Nel 1921, nella conferenza inaugurale del Circolo Matematico di Catania, dal titolo significativo “Essenza e valore della matematica”, Gaetano Scorza registrava la frattura aperta dai filosofi idealisti e riapriva la polemica nei loro confronti contestandone la capacità di occuparsi di scienza. A chi ingenuamente o provocatoriamente chiedeva a cosa serve la matematica, Scorza rispondeva:

A che serve? vorrei rispondere. A niente, se così ti piace, se di ciò a cui essa può servire tu mostri di non tener alcun conto; ma è bella e tanto basta.
Pure se questa è risposta opportuna per l'utilitarismo crasso ed ignorante, non è risposta adeguata a chi chieda dell'essenza e del valore della matematica sul terreno della pura speculazione; qui il far ricorso a una boutade, spiritosa quanto si voglia, sarebbe cosa inopportuna e vana.
Ad un matematico, in quanto tale, avviene ben raramente di chiedersi che cosa sia e che valga la scienza che egli coltiva. L'approfondirne i principi, il portarne a più alta perfezione le varie teorie, il crearne, se occorre, delle nuove, è opera così vasta ed affascinante, che è ben difficile resti tempo e voglia al ricercatore solerte di metter da parte i problemi concreti coi quali si imbatte, tanto più gravi e numerosi quanto più elevata è la sua cultura, e porsi a una valutazione esplicita della scienza che lo innamora.
Aggiungasi che più un matematico è conoscitore profondo della sua disciplina, dello spirito che la informa e dei metodi rigorosi e guardinghi dei quali solo essa si vale, e più diffida delle facili generalizzazioni e delle troppo rapide affermazioni.
Ma se i matematici che si fermino a filosofare intorno alla matematica non sono molti, non v'è filosofo, quasi, che della matematica non abbia creduto di poter delimitare nettamente la portata. Si dirà: è naturale. Il matematico matematizza; è il filosofo che deve filosofare. Ma la cosa non è tanto semplice e naturale.
Se tra la matematica e la filosofia corressero ancora i rapporti di buon vicinato che per secoli sono stati tradizionali; se ciascun filosofo fosse un Platone, un Descartes, un Leibniz, niente di straordinario che egli si sentisse autorizzato ad interloquire sulla matematica; egli ne sarebbe senz'altro un conoscitore profondo. Ma da un pezzo in qua le cose sono totalmente cambiate. La filosofia ha fatto divorzio, da tempo, dalla matematica e non da questa soltanto, e del divorzio si allegra. Quale competenza hanno oggi i filosofi a filosofare intorno ad essa? [corsivo nostro]

Per supportare la forza provocatoria di questo interrogativo, Scorza ricordava la polemica ormai lontana di Giovanni Vacca (1872-1953) seguita alla pubblicazione del saggio di Benedetto Croce: Logica come scienza del concetto puro. In un articolo del 1905 apparso nel “Leonardo”, dal titolo “In difesa della matematica”, l'allievo di Peano aveva accusato il filosofo napoletano di aver espresso precisi giudizi sulla matematica e sulla logica senza conoscere né l'una né l'altra. Croce aveva replicato dichiarando con provocatorio candore che la sua ignoranza della matematica era “molto più grande” di quanto Vacca immaginasse e ribadiva il suo convincimento che “la matematica, non possedendo né verità storica né (poiché riposa su postulati arbitrari) verità filosofica, non è scienza ma strumento e costruzione pratica”.
Sorvolando sulla contro-replica di Vacca (Adversus mathematicos), Scorza si preoccupava di mettere in discussione la negazione di Croce di ogni valore “teoretico” della matematica partendo da quelle circostanze atte a provocare una simile “straordinaria affermazione”. Ciò gli dava la possibilità di prendere le distanze dal convenzionalismo di Poincaré (“È stato Poincaré – dice – quello che ha definito i postulati della geometria libere creazioni dello spirito umano, convenzioni utili e comode quanto si vuole, ma convenzioni”) e di chiarire le affermazioni apparentemente paradossali di Russell alla luce del formalismo di Peano e di Hilbert. E a questo punto Scorza andava diritto al nodo della polemica con gli idealisti:

se un matematico – dice – è pronto oggi a concedere la proposizione: «Esiste una classe infinita, almeno», non altrettanto pronto è qualche filosofo.
Concedere l'esistenza di una classe infinita?!, dirà qualcuno di questi. Ma ciò equivale a concedere l'infinito attuale e il concetto di infinito attuale è contradditorio! Diamine: questa è osservazione molto vecchia. Ecco provato, cari matematici, con quello stesso che voi ci venite dicendo, che la vostra scienza è un tessuto di contraddizioni. (...)
Non ignoro che la difficoltà a concedere l'esistenza di classi infinite è collegata per molti filosofi a vedute che per essi sono di importanza vitale. Per es. non può concederla, e in fatto non la concede, un fenomenista, come il prof. Guastella dell'Università di Palermo; il quale non vuole accordare a Jules Tannery che “dopo ciascun numero intero ve ne ha qualche altro”; ma soltanto che “per ogni numero dato sono dabili dei numeri più alti”.

È facile a Scorza far vedere che nel tipo di risposta del ‘fenomenista’ Guastella è insito quel concetto stesso di infinito in atto che si vorrebbe bandire. Ma l'obiettivo è Croce, il quale “ben lungi dal concedere l'esistenza di una qualche classe infinita, e, nel caso suo, della classe dei numeri naturali, nega che questa sia pensabile perché nessun fatto può esser distaccato dagli altri, nessun fatto può essere invocato ad assumer le funzioni di capo-serie”.

L'obbiezione del Croce, – proseguiva Scorza, riprendendo argomentazioni mutuate dai Problemi della scienza di Enriques (1906) – e non del Croce soltanto, spinta alle sue ultime conseguenze, porta nientemeno a negare che si possa discorrere di oggetti distinguibili del pensiero; e in questo non so quanti potrebbero convenire. Se si ha da ragionare di A e B per vedere di decidere se A sia o non sia B, bisogna pur supporre che durante tutto il corso del ragionamento e A e B rappresentino ciascuno qualche cosa di invariabile; il famoso principio di identità, di che tanto si discorre nella logica, A = A, se non ha da essere una pura tautologia, se non ha da essere occasione di interminabili giochi di parole, o di esercitazioni paradossali di un gusto alquanto dubbio, non può essere interpretato se non appunto come l'affermazione dell'invarianza degli oggetti del pensiero di fronte al processo discorsivo.

Si può, concludeva infine Scorza, negare tutto ciò, ma a patto però di rinunziare “a ragionare, nel senso in cui noi matematici, assai prudenti passatisti di fronte a certi audaci futuristi, usiamo intendere questa parola”. Ed è per questo che Scorza non può “concedere adesione piena all'ampio movimento filosofico che ha culminato nell'idealismo attuale del nostro Gentile”, in fondo al quale gli pareva di scorgere “un poco seducente nullismo”. Che è cosa diversa, dice, dall'idealismo di un Voss col quale concorda circa il valore educativo della matematica (ed è il punto che realmente ci interessa in questo paragrafo) sia sul piano logico sia su quello etico ed estetico. Perché, egli aggiunge, al docente di matematica non è interdetta, “come taluno si compiace di pensare, la possibilità di suscitar negli scolari il senso della bellezza, di eccitarne la fantasia creatrice”, così come faceva Luigi Bianchi nelle sue magistrali lezioni geometriche all'Università di Pisa. Allora, in conclusione, l'essenza, il significato e l'estetica delle teorie matematiche stanno in questo che

per la molteplicità dei legami che le vincolano insieme, per la inesauribile possibilità di riscontri e di confronti che esse offrono, per la potente suggestività che da esse, appunto per questo, si sprigiona, sono particolarmente adatte a far sorgere, in chi amorosamente le studi, o a rafforzare, a rendere più agile e più sicura di sé, se è già sorta, la fantasia creatrice, ed a munirla nel tempo stesso, come di fermo regolatore, di un acuto senso critico.

Colpisce la corrispondenza della chiusa del discorso di Scorza con quanto ha scritto Gian Carlo Rota nei suoi Pensieri discreti35: «Lungi dall'essere il nocciolo della scoperta, la dimostrazione di un teorema è più spesso di quanto si pensi, il modo escogitato dal matematico per assicurarsi che la sua mente non gli stia giocando qualche brutto scherzo». Questo “pericoloso” parallelo vale solo a sottolineare quanto sia vasta, ancora oggi, l'incomprensione degli storici verso i problemi reali dei matematici quando sono costretti a sciogliere il nodo della legittimazione per valore culturale e a rispondere a domande quali: che cos'è la matematica? Che relazione ha con l'arte? Perché molti matematici l'hanno definita e la definiscono “bella”?
Tali sono i temi che i matematici italiani furono costretti ad affrontare per rendere giustizia della “tendenza a esagerare grossolanamente le differenze fra i processi mentali dei matematici e quelli di altre persone”. La frase è di Godfrey H. Hardy, il noto matematico inglese che nel 194036 con la sua Apologia di un matematico, scritta al termine di una lunga vita creativa nel campo della ricerca, prende congedo dalla matematica tentando di spiegarsi razionalmente la natura dei rapporti che aveva tenuto con una disciplina cui aveva donato la parte migliore di sé.
Come Scorza, De Franchis e gli altri matematici italiani che polemizzarono apertamente con le idee estetiche di Croce, anche Hardy si mostra convinto che le creazioni dei grandi matematici non siano per loro natura differenti da quelle artistiche e precisa:

Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme. [...] Il pittore crea forme con i segni e i colori, il poeta con le parole. [...] Il matematico, invece, non ha altro materiale con cui lavorare se non le idee; [...] Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamente. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c'è un posto perenne per la matematica brutta. [...]. Oggi sembra difficile trovare un uomo colto del tutto insensibile al fascino estetico della matematica. È senza dubbio molto difficile definire la bellezza matematica, ma questo è altrettanto vero per qualsiasi genere di bellezza. Possiamo anche non sapere che cosa intendiamo per “bella poesia”, ma questo non ci impedisce di riconoscerne una quando la leggiamo.

Ma la matematica per Hardy, o meglio quella che secondo lui è la migliore, non è solo bella, è anche seria37, laddove la serietà non dipende dalle sue applicazioni pratiche, bensì consiste nella significatività delle idee matematiche messe in relazione. Un'idea matematica è significativa  se la si può collegare in modo naturale a una vasta rete di altre idee matematiche e soddisfa due condizioni essenziali: una certa generalità e una certa profondità:

Un'idea matematica significativa, un teorema matematico serio, sono “generali” nel senso seguente. L'idea deve essere un elemento costitutivo di numerose costruzioni matematiche, utilizzata nella dimostrazione di teoremi molto diversi. Il teorema, anche se all'origine è enunciato in una forma molto particolare (come quello di Pitagora), deve essere suscettibile di una notevole estensione e caratteristico di tutta una classe di teoremi della stessa specie. Le relazioni messe in evidenza dalla dimostrazione devono poi essere tali da collegare tra loro molte idee matematiche diverse.

Hardy avverte il pericolo dell'ambiguità e della pericolosità del termine generalità, così come del termine profondità, ancora più difficile da precisare. La profondità, egli sostiene, ha qualcosa a che fare con la difficoltà, per cui le idee più profonde sono quelle più difficili da afferrare, ma non è la stessa cosa:

È come se le idee matematiche fossero disposte a strati e le idee di ogni strato fossero legate, per mezzo di un complesso sistema di relazioni, sia fra loro sia con quelle degli strati inferiori e superiori. Più lo strato è basso, più l'idea è profonda (e in generale più difficile).

E queste idee, che ripetiamo accomunano Scorza a Hardy pur con le differenze di spessore imputabili alle differenti culture d'origine, lungi dall'essere datate sono ancora presenti nel dibattito fra i matematici e son state poi riprese da Armand Borel38. Come largamente riprese sono le questioni legate al dibattito sull'utilità della matematica e sul legame della ricerca in campo matematico a esigenze pratiche. Vorrei citare qui brevemente due contributi sull'argomento che, per quanto lapidari, possono essere significativi e illuminanti. Robert Musil, nel 1913, scriveva39:

Ma  soltanto se, invece di guardare all'utilità esterna, consideriamo nella matematica stessa la proporzione fra le parti utilizzate e le parti non utilizzate scorgeremo l'altro volto, il volto autentico, di questa scienza. Il volto non finalizzato, ma antieconomico e passionale. [...]. Da qualche parte, [...], lavora solo soletto il matematico [...]. Ed è convinto che il suo lavoro frutterà, presto o tardi, un vantaggio traducibile in termini pratici. Ma non è questo a spronarlo: egli serve la verità, vale a dire il proprio destino, non il suo scopo. L'effetto potrà essere mille volte economia; ma dal punto di vista immanente la sua è una dedizione totale, una passione.

Non con altre parole rispondeva Severi, in un discorso alla SIPS che abbiamo già citato, a chi credeva di assumere “come criterio di massima ofelimità il prezzo del pane”. E aggiungeva:

Scriveva il Clifford nel 1875 che la teoria della curvatura dello spazio – cosa allora astrattissima, di purissima geometria e perciò (...) supremamente inutile – faceva intravedere la possibilità di descrivere la materia e il movimento in termini di estensione; cioè come proprietà geometriche dello spazio.
Questa divinazione del geometra inglese è stata realizzata quaranta anni dopo dalla relatività generale di Einstein; ed oggi, attraverso alle più recenti vedute relativistiche, alle quali ha alluso lo stesso Einstein due o tre mesi fa nelle sue conferenze di Nothingam e di Berlino, si sta certamente per giungere alla sintesi più potente e meravigliosa che sia stata mai immaginata per rappresentare la realtà fisica: sintesi che concepisce l'Universo come un campo, le cui proprietà elettromagnetiche, rivelantisi sotto gli aspetti più diversi (moto, materia, gravitazione, energie fisiche) non sono che apparenze della struttura geometrica dello spazio. (...)
Per rispondere a tono all'esigente domanda “A quoi bon?”, che troppo spesso si rivolge ai matematici, giova rievocar rapidamente la filiazione delle idee, che ha condotto ai risultati cui facevo allusione.

E qui Severi passa in rapida ed efficace rassegna l'importanza di “talune branche della matematica, alle quali per lo innanzi si riconosceva soltanto la qualità di sterili e solitarie, benché brillanti, acrobazie dell'intelletto”: la geometria non euclidea, la geometria riemanniana e cliffordiana, il calcolo tensoriale, assieme all'opera di Maxwell, Hertz e Lorentz, hanno felicemente cooperato alla sintesi einsteiniana. Chi avrebbe mai pensato che concetti creati “per puro gusto matematico” potessero mai giovare alla fisica? «Tanto è vero che – continua Severi – quando questo trasporto [dalla matematica alla fisica] culminò nel calcolo differenziale del Ricci e del Levi-Civita, al Ricci, principale ideatore del metodo, fu negato il premio reale per le matematiche. E fu negato su relazione di un matematico nostro, altrettanto grande, come profondamente onesto e buono, il quale giudicava allora quella impalcatura inutile, anche pei soli scopi della pura geometria differenziale. Tanto è fallace la risposta a priori alla richiesta «A quoi bon», che persino tecnici eminenti posson in buona fede ingannarsi!». E gli esempi potrebbero anche moltiplicarsi: non trae forse i propri strumenti dal calcolo funzionale la meccanica quantistica di Heisenberg? e non li trae dall'equazione differenziale delle vibrazioni elastiche la meccanica ondulatoria di Schrödinger?

Ebbene, è la conclusione di Severi, la matematica, questa scienza che sfiora appena, e di quando in quando, la realtà, per costruire i suoi castelli in aria, ha giovato ora, come altre volte nella storia, a conciliare quello che pareva inconciliabile; a comporre un quadro in cui si fondono in armonia fatti e rapporti che parevano inesplicabili e antitetici.

Come si vede non c'è affatto differenza fra la risposta di Severi a chi negava valore alla matematica, considerandola semplice “esercitazione dello spirito, inutile al progresso”, e la storiella spesso raccontata da Gian-Carlo Rota e che si può leggere ora nei suoi Pensieri discreti. Si tratta del professor Smith, che studiava il problema di suddividere rettangoli in altri rettangoli più piccoli con una tenacia apparentamente spropositata, visto che la mole incredibile di articoli da lui scritti venivano regolarmente rifiutati e sembrava che il mondo matematico ritenesse il problema di rilevanza marginale e non riuscisse a immaginare una possibile applicazione di tale tipo di ricerche. Solo recentemente si è scoperto che le maschere che producono chips richiedono un algoritmo veloce che permetta di tagliare rettangoli in rettangoli più piccoli e così il mondo scientifico si è ricordato del piccolo professore dell'Università di Terranova. Commenta Rota: «Sarebbe un errore credere che la matematica, e più in generale i problemi scientifici, siano formulati e risolti in risposta a necessità pratiche, quali ad esempio le attuali necessità dell'intelligenza artificiale»40.
Allora il problema non è se Scorza o Severi sbagliassero nel difendere con vigore un valore professionale preciso quale la legittimazione della loro disciplina indipendentemente dal fatto che essa serva oppure no: tale suddivisione, giustamente sottolineava Severi, potrebbe essere utile e precisa se si sapesse dire con precisione quando cessa la teoria e quando cominciano le applicazioni. E appare poco credibile il rilievo di chi trova subalterni gli scienziati italiani per non aver mai assunto e sostenuto “la ricerca scientifica come attività che trova in se stessa i propri valori e le proprie motivazioni” (Maiocchi 1980, p. 946). Il problema è invece, come vedremo nel prossimo paragrafo, che la comunità matematica, per limitarci ad essa soltanto, non pose mai il problema delle applicazioni come un aspetto che valesse la pena discutere e sul quale misurare le posizioni: Castelnuovo, Colonnetti, Krall, Fubini, Levi-Civita e Picone non subirono forse opposizioni violente, ma nemmeno godettero di quel clima di simpatia e di quella accettazione che avrebbe potuto segnare una svolta nei rapporti fra matematica pura e applicata. Così come Enriques fu lasciato solo nella sua “battaglia” per affermare il valore culturale della matematica. Come si poteva impedire che ad insegnare la Storia della Scienza nelle scuole secondarie fossero i docenti di filosofia, come volevano i nuovi programmi seguiti alla “riforma Gentile”, se nessuno era disposto ad appoggiare i tentativi di radicare in Italia gli studi di carattere storico ed epistemologico? Forse la strada indicata da Enriques non era adeguata, come è stato sostenuto, alla “grande alluvione neoromantica e neoidealistica” che caratterizza la cultura italiana fino ad oltre gli anni '30. E forse Enriques contribuì egli stesso ad innalzare steccati tra storici della scienza ed epistemologi dissolvendo “la ricerca storica nell'epistemologia”. In verità, una volta che il fossato con i filosofi idealisti era stato scavato, le comunità scientifiche si limitarono a prenderne atto e nulla fecero per recuperare il terreno perduto: non ostacolarono i tentativi di chi si impegnava su quel terreno avanzato, ma nemmeno li favorirono o li promossero. In realtà, una volta che si è fatta strada l'idea del primato della cultura umanistica (la “cultura” tout court), ciò che resta da fare è rivendicare per la scienza uno spazio “accanto” alle altre discipline piuttosto che perseguire, con la lucidità e la coerenza con cui l'aveva fatto Enriques, il tentativo di creare più saldi legami tra la “provincia” scientifica e il resto della cultura, il tentativo cioè di costringere tutti gli uomini di cultura a riflettere sulla scienza e a comprenderne gli indirizzi e i risultati fondamentali.
Non è questa la sede per ripercorrere la ben nota vicenda intellettuale e umana di Federigo Enriques, né per analizzare in dettaglio il significato della sua più che cinquantennale opera a favore del valore culturale della Matematica. Basterà richiamare brevemente un solo elemento di carattere istituzionale41. Enriques era riuscito, in seguito ad un'opera “paziente e continuata” e contando sull'appoggio di Severi (allora Rettore a Roma) e sugli spazi di autonomia aperti dalla riforma Gentile, a creare nel 1925 una “Scuola di perfezionamento nella storia delle scienze” che aveva un duplice obiettivo: «uno scopo generale di cultura, anche in rapporto agl'insegnanti e ai futuri insegnanti delle Scuole medie (...); ed inoltre uno scopo di preparazione specifica di storici, bibliografi etc.». Inizialmente dotata di un budget limitato, Enriques mai ottenne un suo adeguamento che ne favorisse il decollo né quegli altri provvedimenti (borse di studio per i più giovani, il distacco per i docenti delle scuole o la valorizzazione dei titoli scientifici copnferiti dalla Scuola) che avrebbero permesso il reale dispiegamento di tutta l'azione di ideazione, progettazione e allestimento che stava dietro al progetto. La Scuola visse in condizioni asfittiche e grazie al volontariato di Enriques e dei suoi collaboratori ed allievi (Vacca, de Santillana, Carruccio e Fraiese). Certo, è comodo invocare il processo di fascistizzazione della cultura e l'impegno dei Ministri del tempo a imporre giuramenti o ad eliminare dalle commissioni di concorso gli  antifascisti e gli ebrei. Ma in realtà la “Scuola” di Enriques, che traduceva anche a livello istituzionale il valore culturale della Matematica che gli altri matematici difendevano soltanto nella battaglia delle dichiarazioni di principio, era realmente in dissonanza rispetto ai temi della propaganda di regime fatti propri dalla maggioranza della comunità matematica, lontana com'era nell'impostazione e nella pratica dei corsi da ogni esaltazione nazionalistica, con i suoi miti del “precursori”, del “primato” e del “genio” italici. È stato notato in Enriques qualche accenno al valore “nazionale” della Storia della scienza e qualcuno ha preteso di gridare allo scandalo. Mi pare però che quel richiamo abbia in Enriques il valore di un'esigenza ‘forte’ di autovalorizzazione rispetto alle più forti strategie culturali europee, mai disgiunta da una denunzia, netta e chiara, della miseria strutturale del nostro sistema scientifico e anzi mirante proprio al suo rafforzamento. Cosa che è ben lontana dalla impostazione nazionalistica che divenne prevalente negli anni '30 e che assunse la visione “autarchica” come canone interpretativo dell'ieri e dell'oggi. L'autarchia produttiva come quella intellettuale finì anzi col valorizzare la miseria strutturale della scienza italiana che, da elemento di dannazione e i denunzia, divenne elemento di esaltazione retorica funzionale alla auto-proclamata “superiorità italica”.
Ciò divenne evidente dopo l'allontanamento di Enriques in conseguenza delle leggi razziali quando, dopo un periodo di due anni di pratico abbandono, la direzione della “Scuola” venne affidata a Severi. Era una scelta che aggiungeva al danno la beffa, anche se coerente a quella isterìa autarchica che Severi condivideva e cui aveva dato significativi contributi con un elogio di Marconi (1934), col successivo necrologio (1938) e con due scritti su Galilei e Archimede (1939). E quella scelta, che offendeva il 'comune senso del pudore' (scientifico), era anche coerente al clima scatenato dall'antisemitismo di stato. Sono chiari segnali dell'ormai avvenuta scelta della comunità matematica italiana di sposare in toto “l'autarchia dell'intelligenza”, come è peraltro evidente dalle parole con cui Severi chiudeva il suo articolo su Galileo:

L'arco ideale ricongiungente la scienza moderna all'antica ha per appoggi estremi Archimede e Galileo e per possente pilone intermedio Leonardo. I giganti del pensiero, che sostengono le fondamenta della civiltà nella scienza, nell'arte, nel jure, son quasi tutti italiani. Ricordarlo in questa sede è pressocché superfluo.
È invece necessario guardar duramente e fieramente la realtà, e riconoscere che tutto ciò non costituisce apprezzabile titolo per ottenere giustizia fra le nazioni, nella serrata lotta degli interessi e delle egemonie.
I ricordi più recenti – Versaglia e le sanzioni – lo dimostrano e ci ammoniscono.
Ma mentre l'insonne nocchiero, superba e fedele sintesi dei sentimenti, delle aspirazioni, del genio della razza, guida nella procella la prora d'Italia, gli scienziati italiani, sereni ed alacri ai loro posti di lavoro e pronti ad ogni dedizione e ad ogni sacrificio, hanno la certezza, con tutto il Popolo nostro, che, per lo stesso avvenire dell'umana civiltà, giustizia ci sarà assicurata o da una più equilibrata e realistica visione dei bisogni delle nazioni o dalla nostra volontà, lucida e diritta come la spada che la presidia.

Sono chiaramente parole “di guerra” e fanno toccare con mano quanto lontani i matematici italiani si erano spinti sul piano dell'adesione alla retorica di regime. Così la “solitudine” di Enriques sul piano di un rigoroso sviluppo del valore culturale della Matematica si somma alla “solitudine” politica di Levi-Civita sul piano di un rigoroso rilancio del concetto di internazionalismo scientifico svincolato dalle scelte delle potenze vincitrici e ancorato invece ai problemi dell'autonomia professionale degli scienziati. La progressiva fascistizzazione del Paese e le scelte “autarchiche” degli anni '30 fecero piazza pulita dell'una concezione e dell'altra.
E tuttavia, a testimonianza della mantenuta attenzione verso le questioni del valore culturale della disciplina, non vogliamo passare sotto silenzio gli sforzi profusi da alcuni matematici nell'opera di aggiornamento della cultura degli insegnanti, i principali divulgatori della disciplina. Basterà limitarsi a citare due grandi opere collettive: le Questioni riguardanti le matematiche elementari (a cura di Federigo Enriques) e L'Enciclopedia delle matematiche elementari (a cura di Luigi Berzolari). La prima, edita dalla Zanichelli, ebbe numerose edizioni dal 1900 fino al 1924-27; la seconda, pubblicata dalla Hoepli, ebbe inizio nel 1930 e si concluderà ai primi anni '50. A questa attività si affiancava, nel periodo tra le due guerre, anche una importante attività manualistica (sia a livello universitario sia a livello delle scuole secondarie) cui misero mano i principali esponenti della matematica italiana.

 

2.2 La legittimazione per valore di utilità

Gli accenni fatti nella chiusa del paragrafo precedente alla matematica scolastica ci consentono di passare direttamente ad illustrare i rapporti tra matematica pura e applicata. Tralasciando per brevità i casi già accennati nel paragrafo introduttivo (Calcolo delle Probabilità, Statistica, Matematica finanziaria e attuariale etc.) che da soli avrebbero bisogno di ampia trattazione, il riferimento d'obbligo è all'opera di Mauro Picone, unanimamente ritenuto il fondatore del Calcolo numerico in Italia.
L'avventura inizia nel periodo napoletano (1925-'32) dell'insegnamento universitario di Picone (prima era stato a Cagliari, Catania e Pisa). A Napoli Picone prosegue studi, già ben indirizzati durante il lavoro di guerra, di sintesi fra la ricerca in Analisi matematica e quella in Calcolo numerico. È proprio in funzione di una tale sintesi che egli fonda, con un finanziamento parzialmente supportato dal Banco di Napoli attraverso il “Consorzio universitario” e con l’aiuto determinante dell'ex collega della Normale, Luigi Amoroso (1886-1965), un piccolo Istituto di Calcolo “per l'Analisi matematica numerica”. Il progetto si giova di collaboratori di talento (non sempre entusiasti): Renato Caccioppoli (1904-1959), Giuseppe Scorza Dragoni (1908-1996), Carlo Miranda (1912-1982) e Gianfranco Cimmino (1908-1989), che all'iniziativa forniscono fin dall'inizio una solida base scientifica.
Ha scritto Amerio [1987] che Picone volle associare in unico Istituto l'Analisi matematica “pura” alle sue applicazioni, “fino al risultato numerico” per cui occorreva talvolta studiare e far uso di “argomenti anche astratti”, nella convinzione che l'analisi di problemi applicativi, da risolvere fino in fondo, avrebbe potuto fornire spunti preziosi per nuove indagini teoriche. Infatti risolvere fino in fondo un problema significa, in molti casi, “non limitarsi a considerarlo completamente risolto quando si sia in possesso di teoremi di esistenza, unicità e dipendenza continua dai dati in un opportuno spazio funzionale, ma cercare anche procedimenti costruttivi per il calcolo effettivo della soluzione, valutare gli errori inerenti alle approssimazioni ecc.: condurre a termine, in altre parole, la cosiddetta analisi quantitativa del problema”.
L'importanza dell'iniziativa di Picone è evidente e acquista maggiore rilievo alla luce del carattere pioneristico che aveva allora il cosiddetto Calcolo numerico. Nel 1932, quando Picone ottiene il trasferimento a Roma, si adopera subito perché un corso di ‘Calcolo numerico’ venga inserito nello Statuto universitario. Vi riesce solo in parte: ottiene infatti che un corso di “Calcoli numerici e grafici” si inserisca fra quelli facoltativi della Scuola di “Scienze statistiche e attuariali”, aperta a Roma su iniziativa di Castelnuovo e presieduta da Francesco Paolo Cantelli, ma non fra quelli della Facoltà di Scienze perché i matematici, commenta Fichera, “avevano ritenuto che il contenuto del corso non avesse i requisiti per apparire nell'elenco degli insegnamenti facoltativi per una laurea in matematica”.
Il trasferimento a Roma di Picone avviene in seguito al trasferimento stesso del suo piccolo Istituto di Calcolo, che passa alle dipendenze del CNR per iniziativa del “purista” Gaetano Scorza, allora Presidente del “Comitato matematico” del CNR. Nel novembre del 1932 diviene attivo col nome di “Istituto centrale di calcoli tecnici”. La rivista ufficiale del CNR, “La Ricerca Scientifica”, ne annuncia l’inizio dell'attività come istituzione nata “per la valutazione numerica dei problemi di analisi matematica sollevati dalle Scienze sperimentali e di applicazione”. L'Istituto avrebbe avuto una sede provvisoria, in attesa della ultimazione di quella definitiva, già in costruzione, presso il palazzo centrale del CNR, e avrebbe collaborato con i ricercatori delle Scienze sperimentali e di applicazione “allo studio delle questioni matematiche che a loro interessano, sia allo scopo di conseguire, eventualmente, un'iniziale precisa formulazione delle questioni stesse, sia allo scopo delle valutazioni numeriche che occorrono, con la necessaria approssimazione”.
In particolare l'Istituto avrebbe accolto le ricerche seguenti:
– di calcolo approssimato delle radici di un'equazione o di sistemi di equazioni;
– di calcolo d'integrali;
– di studio e di tracciamento di curve di assegnata equazione;
– di analisi armoniche;
– di sommazione di serie;
– di ricerca di massimi o di minimi di funzioni, comunque definite e, per esempio, anche da equazioni differenziali ordinarie o alle derivate parziali o da equazioni integrali;
– di tabellazione numerica di funzioni, di una o più variabili, comunque definite, per esempio, da integrali, da dover soddisfare a equazioni differenziali ordinarie o alle derivate parziali con condizioni ulteriori atte a determinarle, a equazioni integrali o integro-differenziali, ecc.;
– di calcolo di autovalori (velocità critiche degli alberi motori, comunque sollecitati e a sezione comunque variabile, frequenze nelle oscillazioni, ecc.);
– di calcolo delle variazioni (determinazione d'intervalli entro cui varia un detrminato funzionale).
L'Istituto, infine, si impegnava ad assumere il controllo di calcoli “già eseguiti, relativi a progetti di costruzioni civili, meccaniche, elettrotecniche, ecc., allo scopo di garantire l'esatta applicazione delle formule teoriche adottate”.
Nel 1933, in seguito alla ristrutturazione globale del CNR, l'Istituto di Picone viene riorganizzato ed assume il nome definitivo di “Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo” (INAC). Sotto la Direzione di Picone, vi lavorano: Carlo Miranda (vice-direttore), Lamberto Cesari, Tullio Viola, Carlo Tolotti, e, con la funzione di consulenti, Fabio Conforto, Renato Einaudi e Luigi Sobrero. L'Istituto impiegava inoltre 8 calcolatori laureati e 3 calcolatori disegnatori. Quest'ultimo aspetto, quello cioè di trovare iniziale occupazione a diecine di laureati in matematica, è, oltre a quelli scientifico e organizzativo, un altro dei meriti grandi di Picone. Né va dimenticata l'ospitalità concessa a moltissimi studenti di matematica per l'elaborazione delle loro testi di laurea. Quanto sia importante tale presenza ai fini del reclutamento di giovani ricercatori è inutile sottolineare. È proprio questa sensibilità di eccellente “scopritore di talenti” e le sue sensibilità di Maestro che impongono ancora oggi Picone all’attenzione e mettono in luce pioneristiche qualità manageriali.
Le ricerche effettuate da uno stuolo considerevole di matematici durante i loro contatti con l'INAC riguardano campi quali l'analisi funzionale, la teoria dell'integrazione, l'area delle superfici, le equazioni differenziali ordinarie e alle derivate parziali, le equazioni integrali, il calcolo delle variazioni, gli sviluppi in serie, le funzioni speciali, le formule di quadratura, il calcolo delle probabilità, la meccanica razionale e la fisica matematica, la scienza delle costruzioni, ecc. Mentre è facile quantificare, attraverso le due serie di pubblicazioni dell'Istituto [Serie I, dal 1927 al 1936, Serie II dal 1937 al 1963], la ricerca scientifica che vi è stata svolta, difficile risulta quantificare i contratti di consulenza che l'INAC sottoscrive con Ministeri, Istituti Universitari e singoli ricercatori, anche perché molti di quei contratti avevano carattere riservato (costituendo lavoro “di guerra”) e non tutte le consulenze diedero luogo a pubblicazioni. In ogni caso, si possono stimare in 1180 le consulenze richieste dal 1937 al 1959 e in 1492 quelle richieste dal 1937 al 1964. A questo dato cumulativo noi possiamo solo aggiungere che nel primo quadriennio di vita dell'INAC, dall'ottobre 1933 all'aprile 1938, ben 130 contratti erano stati richiesti da Ministeri vari o da ricercatori collegati ad essi. La scomposizione per settore indica una netta prevalenza del settore militare rispetto a quello civile:
Ministero dell'Aeronautica: 64 contratti, di cui 48 diretti ed il rimanente attraverso “scienziati e ditte collegate” (Krall, Crocco e Pistolesi fra i primi; la Caproni, la Cantieri Riuniti dell'Adriatico, l'Institut de Mecanique des fluides di Marsiglia, fra le seconde). Fra le commesse figurano ricerche di un certo interesse: calcolo delle traiettorie di un autopilota, abachi per il tiro di lancio da aeromobili, determinazione degli angoli di tiro nel volo in picchiata, studio dell'interferenza della galleria aerodinamica con tratto libero.
Ministero delle Comunicazioni: 9 contratti.
Ministero della Guerra: 8 contratti (fra cui uno “studio di un radiogoniometro per segnali deboli”, uno “sulla perturbazione nel tiro dovuta alla rotazione terrestre e alla variazione della gravità” ed uno, commissionato dalla “Breda” su: “massima utilizzazione degli impianti industriali”).
Ministero dei Lavori Pubblici: 32 contratti, di cui 11 diretti, 12 attraverso “scienziati e ditte collegate” (Krall, Carlo Tagliacozzo, Enrico Volterra, Ferrobeton) e 9 “ricerche proprie dell'Istituto” interessanti quel Ministero.
Ministero della Marina: 8 contratti (fra cui: “rilevamento acustico degli aerei” e “quesiti del calcolo delle probabilità nel tiro antiaereo”).
Istituto Nazionale di Ottica (Arcetri): 9 contratti (con la precisazione che “l'attività dell'Istituto Nazionale di Ottica interessa direttamente tutti i Ministeri”).
Era giustamente orgoglioso della vastità del lavoro compiuto, Picone, quando ormai più che ottantenne, nel donare alla Biblioteca dell'Accademia dei Lincei alcune delle prime pubblicazioni dell'I.N.A.C., scriveva (Picone 1968):

Giunto a tarda età, soffermandomi spesso a considerare la mia opera del trascorso sessantennio, mi si palesa sempre sovrastante in essa la creazione dell'Istituto per le Applicazioni del Calcolo, la cui idea mi balenò durante la guerra 1915-18, nella quale, a mezzo del calcolo, riuscii a rendere sempre efficace il tiro delle nostre artiglierie di medio e di grosso calibro, operanti sulle montagne del Trentino e sull'altipiano di Asiago. (...)
La più antica di queste pubblicazioni considera l'organizzazione del detto Istituto e la sua attività, svolta durante il lontano quadriennio 1933-1937, immediatamente successivo all'anno in cui, dall'Università di Napoli (...) venne, con la valida, sapiente collaborazione datami dai compianti Luigi Berzolari, Francesco Paolo Cantelli, Gaetano Scorza e da Enrico Bompiani, trasferito a Roma, come organo del Consiglio Nazionale delle Ricerche (...).
Il volume in esame contiene anche un'esposizione succinta dei metodi seguiti nella trattazione data a ciascuna delle questioni – quando non abbiano carattere riservato – sottoposte allo studio dell'INAC, ed anche di quelli che competono a ricerche propostesi, di sua iniziativa, dallo stesso INAC.
Altissimo titolo d'onore che può vantare l'INAC, conquistatosi nel quadriennio considerato, proviene dalla collaborazione data a Enrico Fermi per le sue memorabili ricerche, di quel tempo, di Fisica atomica. Non potrà mai svanire in me il ricordo delle sedute che avevo con Lui per lo studio preliminare degli elevati problemi di calcolo ch'Egli poneva all'INAC. Egli mi si rivelava anche un matematico formidabile, provvisto di un eccezionale infallibile intuito analitico che gli permetteva di prevedere, all'istante, fatti analitici, dei quali poi, faticosamente, io dimostravo la realtà! Per esempio, ricordo che in uno studio asintotico di una determinata soluzione di un'equazione differenziale lineare ordinaria del secondo ordine, egli previde che la soluzione stessa sarebbe stata all'infinito infinitamente grande d'ordine minore di uno rispetto alla variabile indipendente; ebbene, io poi dimostrai che tale ordine era, precisamente, 1/2.

È legittima una tale nota di orgoglio? Penso proprio penso di sì, se si riflette sulle importanti novità introdotte dall'INAC nel panorama matematico italiano. È la prima volta che la ricerca matematica si organizza all'esterno dell'università; è la prima volta che la disciplina diventa soggetto e oggetto di consulenza, aprendosi a nuovi rapporti professionali e dando inevitabilmente luogo a ricerche non più individuali. Sono queste caratteristiche che non possono non avere ricadute anche sui contenuti della ricerca matematica e sul suo stesso significato. Non basta dimostrare un teorema di esistenza e/o di unicità, ma occorre anche elaborare opportuni algoritmi numerici per il calcolo della soluzione. Naturalmente, Picone non è il primo ad affrontare simili problemi, sempre presenti nel lavoro degli ingegneri, dei fisici o degli economisti. È però la prima volta che i matematici si fanno esplicitamente carico del problema e mettono fianco a fianco, in uno stesso Istituto, competenze di alto livello teorico e sensibilità numerico-applicative. Finalmente, l'annoso dibattito sui rapporti, i confini e le conflittualità tra matematica pura e matematica applicata ha la possibilità di non più fondarsi su affermazioni di principio ma di svilupparsi su una precisa esperienza di lavoro.
Le raccomandazioni agli analisti che vogliano fare studi veramente utili per le applicazioni alle scienze sperimentali sono numerose, criticando l'introduzione di ipotesi aventi significato puramente analitico e estranee dal punto di vista fisico e cercando di dare giustificazione di ogni formalizzazione che possa apparire eccessiva.
Mai però Picone, nella sua lunghissima attività scientifica, arriva a teorizzare una visione dicotomica della Matematica: da un lato la matematica pura, quella di “base”, dall'altro quella “applicata”. Nella già citata relazione ai Lincei del 1968 scriveva:

Ora, a mio avviso, non ha senso sezionare la Scienza in “Scienza pura” e in “Scienza applicata” poiché non vi è che una “Scienza” ed una Scienza concepita nel più assoluto rigore logico, e nella sua massima generalità. Vi sono sì, applicazioni della Scienza, ma questa non può essere fruttuosamente applicata che da Scienziati che la posseggano profondamente, in tutta la sua vastità e siano anche in grado di allargarne i confini. Come ho potuto convincermi nella mia trentennale opera di applicazione della Matematica alle altre Scienze e alla Tecnica, un problemino che può sembrare - a prima vista - di limitato interesse scientifico, può trovare una sua soddisfacente soluzione, soltanto in teorie elevate di Matematica già note o che occorre creare ad hoc. Se poi, per “ricerca applicata” si vuole alludere a quella che si deve fare per trovare nei trattati scientifici l'eventuale soluzione di un problema presentatosi al tecnico, essa non può essere considerata ricerca scientifica e deve essere compito di un qualsiasi tecnico rispettabile.

Era chiara dunque, in Picone, la distinzione fra i due piani che caratterizzano il lavoro nel campo della cosiddetta “matematica applicata”: quello dell'applicazione e quello della ricerca. Nel primo, si tratta di adattare proposizioni matematiche già dimostrate (o immediatamente dimostrabili da “un qualsiasi tecnico rispettabile”) a fenomeni relativi ad altre scienze. Nel secondo, invece, si tratta in genere di stabilire una concatenazione più o meno complessa di ragionamenti matematici originali, del tutto simili a quelli che caratterizzano la ricerca creativa nel campo della matematica cosiddetta “pura”, con l'unica differenza che qui le ipotesi e le relazioni matematiche di partenza sono sempre considerate come rappresentazioni approssimate e astratte di fenomeni appartenenti ad altre scienze e le conclusioni vanno tradotte nel linguaggio di tali scienze e stabilite quantitativamente (più che qualitativamente) per rendere possibili i confronti con i dati sperimentali. Ma se, gli obiettavano gli oppositori, la matematica “applicata” poco differisce nella sua fase di ricerca da quella “pura”, non restava altro che la matematica “pura” con le sue “applicazioni”. Su tale argomento il dibattito fu sempre vivace con repliche e contro repliche numerose, anche se ben lontane dalla maturità raggiunta sullo stesso discorso da altri autori42.
Picone scelse pragmaticamente una via d'approccio che sottolineava il carattere complementare, ma non per questo inessenziale, della sua iniziativa rispetto alle scelte strategiche dei matematici italiani. Nell'annuale riunione della S.I.P.S. del 1933 si limitò a precisare:

Con ciò non voglio dire che i matematici abbiano bisogno dell'Istituto per le Applicazioni del Calcolo per lavorare e per produrre, voglio solo dire che questo Istituto, mettendo i matematici a contatto coi problemi della natura - la quale purtroppo, come ebbe a  dire Laplace «non si preoccupa delle difficoltà analitiche» - potrà talvolta concorrere a richiamare l'attenzione di essi su talune gravissime difficoltà matematiche che potrebbero altrimenti rimanere ignorate, il superamento delle quali potrebbe però anche portare ad un grande progresso per la matematica stessa e recarle gloria, a vantaggio anche di quel riconoscimento che le spetta, ma che il grande pubblico, certo ingiustamente, non è sempre ben disposto a darle.

Oltre che da esigenze “tattiche”, per le quali Picone, convinto e ardente fascista della prima ora, arrivò a teorizzare la già citata (risibile) identità del tipo: “matematica applicata = matematica fascista”, la posizione di Picone appare motivata da scelte “strategiche” che non avevano minore dignità di quelle assunte dalla maggior parte dei matematici italiani che difesero ad oltranza la “purezza” della loro disciplina: si trattava in buona sostanza di costruire un settore autonomo (e istituzionalizzato) di matematica “applicata”. L'ostinazione di Picone e insieme la politica del regime fecero sì che le sue posizioni riuscissero a farsi strada pur tra mille difficoltà e incomprensioni, raccontate dallo stesso Picone in un passo della sua autobiografia (Picone 1972):

Fin da quegli anni [dell'immediato dopoguerra], io andai propugnando, con inesausta tenacia, queste mie idee fra i miei amici e nel mio insegnamento, in ambienti scientifici ed in ambienti industriali. Ma esse progredivano con estrema lentezza! È, oggi più che mai, inesplicabile la contrarietà al loro avanzamento che proveniva da quasi tutti i matematici. Ma ricordando la massima del Principe Guglielmo D'Orange, secondo la quale «Non occorre sperare per intraprendere, non occorre riuscire per perseverare» io non mi detti per vinto, neppure dopo un voto contrario alla creazione del progettato Istituto di Calcolo, emesso dall'Unione Matematica Italiana, anche perché ebbi verbali incitamenti, sommamente stimolanti, ad attuare il mio progetto, dagli insigni Maestri scomparsi: Luigi Bianchi, Guido Castelnuovo, Ludwig Prandtl, Arnold Sommerfeld, Vito Volterra.

Capofila degli oppositori era – l'abbiamo già detto – Francesco Severi che vedeva, non a torto, nel martellare del fascismo verso le applicazioni pratiche della scienza, il prolungamento a livello politico della svalutazione della scienza operata dagli idealisti: nel difendere a oltranza il “nocciolo duro” della disciplina, rappresentato dalla ricerca disinteressata, egli difendeva un valore professionale preciso e volutamente trascurava, per non offrire possibilità di cedimenti, una potenzialità preziosa per i matematici: quella di sfruttare la politica del regime a vantaggio della disciplina che poteva però prestarsi anche, sul piano accademico, a privilegiare i settori analitici della disciplina cosa che i geometri non potevano volere. Proprio a ridosso del primo Congresso nazionale dell'UMI, Picone aveva scritto sul “Bollettino” della Società che

gli studi di pura matematica interessano in sommo grado l'Istituto [INAC], ed il personale direttivo di esso è tenuto a contribuirvi nel miglior modo possibile, cercando anche di conseguire un riconosciuto primato sia a mezzo di pubblicazioni personali nelle varie Riviste scientifiche, sia a mezzo di buona opera didattica prestata all'Università, sia, infine, nei pubblici concorsi a cattedre di Università o a premi accademici.
Nel concetto del Direttore dell'Istituto vi è che l'Istituto stesso debba presto affermarsi anche come uno dei più efficaci propulsori della ricerca scientifica, non soltanto nel campo delle applicazioni della matematica alle varie scienze sperimentali ed alla tecnica, ma anche in quello della matematica pura. La visione applicativa degli studi scientifici non può che essere feconda di progresso anche per la scienza pura. Questa massima, che nel clima fascista si è finalmente imposta agli scienziati italiani, è a base di tutta l'organizzazione dell'Istituto per le Applicazioni del Calcolo.

Queste parole dovevano apparire fortemente sospette a Severi, il quale, inaugurando qualche mese dopo i lavori del primo Congresso dell'UMI, proprio sulle “applicazioni” della matematica centrava il suo discorso, attaccando e le posizioni di Picone e l'esistenza all'interno del CNR di un Comitato che si volle chiamare di “Matematica applicata” proprio per sottrarlo alla influenza di Severi. Conviene leggere direttamente alcuni brani di questo discorso per sottolineare il modo in cui Severi affrontava il problema delle “gerarchie” (non più, ora, tra discipline diverse di una stessa Facoltà, ma all’interno di una stessa disciplina):

Il camerata e caro amico che, dopo aver ideato, ottimamente dirige l'Istituto per le Applicazioni del calcolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha scritto or ora che «la visione applicativa degli studi scientifici non può che esser feconda di progresso anche per la scienza pura». (...) Bisogna concluderne che la visione applicativa ha da governare e coordinare gli studi scientifici come condizione sine qua non affinché la scienza pura non diventi infeconda? (...) Ancora: il criterio dell'utilitarismo per discriminare e dirigere la ricerca scientifica, va considerato in senso tecnico e strettamente materiale, oppure va inteso anche in senso spiritualmente più elevato, ammettendo che la scienza, specialmente in talune delle sue manifestazioni più astratte, possa adempiere a funzioni sociali?

Con un apparato esteso di metafore e di citazioni, da Fontenelle a Jacobi e Pasteur, Severi esplicita poi il concetto secondo cui non esistono scienze “applicate”, ma solo applicazioni della Scienza e della Matematica in particolare, magari nella accezione più ampia di possibili inquadramenti di differenti gruppi di fenomeni in un'unica teoria matematica, elaborata però per se stessa, come libera creazione del pensiero umano alla stregua di una creazione artistica. Dopo di che egli ritorna al vero problema della sua esposizione per sottolineare che l'unica gerarchia possibile è quella che vede al vertice della piramide la matematica “pura”. E del resto, secondo Severi, se una interpretazione della politica fascista verso la scienza può darsi, essa non può che sottolineare la sua sostanziale unitarietà e l'esclusione di privilegi di sorta. Al più, tenendo anche conto del fatto che l'INAC è ormai una realtà, si può invocare una pari dignità per le scienze “pure” e quelle “applicate”:

Il DUCE (...) ha voluto, con la creazione dell'Accademia d'Italia, affermare il posto di primo piano che il Regime assegna all'arte e alla scienza, come pure attività dello spirito; e, con la istituzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, disciplinare e collegare meglio le ricerche scientifiche alle pratiche applicazioni ed al progresso tecnico ed economico della Nazione. Da un lato vi è il pieno riconoscimento delle funzioni puramente spirituali della cultura e della scienza; dall'altro quello del loro immenso valore pel benessere materiale del paese. Questa duplicità di scopi è legata da un'unità ideale, egregiamente espressa dal fatto che la Presidenza dei due Istituti è concentrata nelle mani di Guglielmo Marconi; è l'unità del progresso, il quale ascende con quest'alternanza: i problemi della natura e della pratica suggeriscono problemi scientifici, che si sviluppano indipendentemente da ogni considerazione utilitaria estranea alla scienza pura; e, così evoluti e potenziati, ritornano a fecondare i campi applicativi, per ricever da questi nuovi impulsi; e in tal guisa indefinitamente.
Ritornando ad una delle questioni enunciate all'inizio del discorso, debbo con piacere dichiarare che in ciò sono perfettamente d'accordo col camerata Picone (...). Dal principio avevo lasciata dubbiosa la perfezione di questo accordo, per accentuare il sapore polemico della mia presa di posizione. E debbo altresì riconoscere che il fervore con cui si lavora nell'Istituto per le applicazioni del calcolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche dimostra che i matematici purissimi, che ne costituiscono il personale di concetto, a farsi dal Direttore, rigorista dal pel nell'uovo, sanno bene adattare le forze loro, nate e temprate in un'atmosfera di purismo scientifico, anche al clima applicativo del nuovo ambiente. Problemi di fisica atomica, di elasticità, di dinamica delle costruzioni, di elettrotecnica, di velocità critica degli alberi motori, passano ininterrottamente dall'Istituto e s'innestano ivi con problemi di pura analisi.
Accanto a questo sommario elenco delle attività dell'Istituto, si dovrebbe porre un elenco più vasto dell'attività generale del Consiglio Nazionale delle Ricerche (...). Come si sa, vi era nel Consiglio un sottocomitato di matematica applicata, cioè di una scienza inesistente, secondo Pasteur. La grande stima e l'amicizia che ho per l'illustre prof. Cantelli, che lo ha finora presieduto, non possono impedirmi di dichiarare (...) che trovo ingiustificato l'ostracismo alla matematica senza aggettivi. È vero che, nel fatto, anche per quel sottocomitato la matematica ha finito per imporsi per quello che è, pur sotto la poco felice etichetta. Ne sono una prova le belle monografie finora saviemente pubblicate dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: quella di Vitali e Sansone sulle funzioni di variabile reale e quella di Fano sulla geometria non euclidea.
Ma io vorrei che l'indirizzo segnato dal Capo alle nostre attività, non subisse mai deviazione alcuna. Scienza pura e applicazioni procedano autonome ed a stretto contatto, a seconda delle circostanze e dei bisogni; però senza che si stabilisca fra loro una gerarchia, della quale vedremmo presto i danni, non riparabili con la facilità e con la rapidità con cui si produrrebbero. Le Università nostre abbian dovizia di cattedre delle discipline sperimentali, le quali sono a più immediato e frequente contatto con la pratica; ma questo non avvenga a scapito della nostra disciplina, come da qualche tempo non raramente accade.

Ecco dunque il costante ripresentarsi della difesa del “capitale accademico” e il richiamo all'unità che è sì l'unità voluta dal “Capo”, e dettata dalle circostanze, ma che deve essere soprattutto dettata, ed in ciò si recupera quel minimo di autonomia professionale momentaneamente abbandonato, dalla non conclusività del dibattito avviato: per Severi non ci possono essere gerarchie diverse da quelle dettate dalla matematica pura, non essendo neppure concepibile una matematica “applicata”. Ci possono essere al più le applicazioni e queste, se mai fossero venute, sarebbero venute da sole senza intervento di “levatrici” diverse da un normale buon matematico (senza aggettivi). Illuminante in tal senso quanto egli stesso ribadirà in occasione delle “Onoranze” a Picone nel 1956:

è anche vero che le sole formule matematiche, prima che si scenda ai numeri, possono dare soltanto indicazioni qualitative dei fenomeni, non quantitative; e invece per le applicazioni pratiche occorre conoscere le quantità e non le sole qualità. (...) Le nostre formule e i nostri teoremi sono carichi di significati applicativi (anche quelli che sembrano più lontani dalle applicazioni), carichi fino a scoppiare; ma bisogna bucarli; e bucarli perché scendano dalla stratosfera nella atmosfera dei numeri e perché si rendano utili.
Ebbene Mauro Picone ha il grande merito di essersi reso conto che occorreva un matematico, un matematico proprio di razza, che compisse l'operazione di trasportare al campo numerico risultati e formule di alta analisi. In ciò, come egli stesso dichiara, ebbe la prima spinta quando, ufficiale combattente nella prima guerra mondiale, ebbe la ventura di portare ragguardevoli contributi al migliore impiego delle artiglierie, specialmente a lunga gittata (...). Anch'io modestamente feci qualcosa del genere nel campo artiglieresco, durante la prima grande guerra, ma non mi venne per questo l'idea di creare un Istituto pel Calcolo numerico.
(...)  non nascondo che non mancai di esprimergli il mio scetticismo iniziale sopra la possibilità della intrapresa che egli voleva realizzare. Non pensavo soltanto alle difficoltà teoriche di dovere creare estemporaneamente i mezzi di analisi per tradurre in equazioni, come diciamo noi matematici, i problemi principali, fisici, ingegnereschi, industriali, e per risolverli. Le invenzioni matematiche pensavo, e penso, difficilmente si fanno su misura. Vengono quando vengono. Le applicazioni possono essere le occasioni, ma solo le occasioni.

Era dunque Severi, con questo manifesto disprezzo per le applicazioni (gli aggettivi usati sono: ‘artiglieresco’, ‘ingegneresco’), a confondere i due piani della cosiddetta “matematica applicata”: puntando volutamente su quello direttamente applicativo, egli finiva col ghettizzare anche il piano della ricerca in quel settore. Non vi riuscì perché l’ostinazione di Picone, e i suoi rapporti con i vertici dell’apparato militare, gli si consentirono di portare avanti un progetto che in realtà concorreva a ottenere sostanziosi vantaggi per la Matematica italiana. Lo riconosceva magistralmente Renato Caccioppoli quando, in occasione delle citate “Onoranze” a Picone nel suo 70° compleanno, nel consegnargli un volume di scritti in suo onore, così concludeva:

ho accennato alla fondazione dell'Istituto per la Applicazioni del Calcolo; si tratta di un ricordo personale, perché ero giovane assistente di Picone quando l'Istituto sorse a Napoli quasi trent'anni fa. Altri ha già autorevolmente parlato di questa geniale iniziativa, un tempo tanto discussa, che tanto scetticismo incontrò sul nascere (anche da parte mia, debbo confessarlo) e che ha assicurato all'Italia un invidiabile primato. Le vedute di Picone si sono ormai imposte a tutto il mondo scientifico, ed è stato variamente ripreso altrove il Suo programma organizzativo delle applicazioni dell'Analisi alle Scienze esatte e particolarmente tecniche, soprattutto ai fini dei calcoli numerici. Grazie a Lui, il nostro Paese è alla testa del progresso scientifico in questa direzione.
Picone ha una concezione profondamente realistica dei compiti del matematico, e nella relazione dialettica fra Analisi pura e applicazioni vede la ricerca teorica nascere all'occasione del problema applicativo, e questo abbisognare per la sua risoluzione effettiva - cioè numerica - delle risorse più svariate e spesso riposte della teoria. È questa concezione ispiratrice della Sua attività di ricercatore e di organizzatore che conferisce una impronta inconfondibile a tanta parte della Sua opera e di quella della Sua Scuola.

Possono sembrare parole di circostanza, ma in realtà riflettono bene un bilancio largamente positivo, bilancio che a livello scientifico si può riscontrare attraverso un'ampia memoria, dal titolo “Risultati concernenti la risoluzione di equazioni funzionali lineari dovuti all'INAC”, che Gaetano Fichera presentò nel 1950 all'Accademia dei Lincei. In essa è riassunta l'attività dell'Istituto di Picone in circa 25 anni di attività e nell'Introduzione è scritto:

Dal 1927 ad oggi l'Istituto ha instancabilmente lavorato (...). Trascorso quasi un quarto di secolo di ininterrotta operosità dell'Istituto, parmi ormai opportuno gettare uno sguardo sopra i risultati da esso acquisiti alla Scienza nei diversi campi in cui ha lavorato.
La presente Memoria è appunto dedicata a riferire in rapida sintesi sulla grande messe di contributi, apportata all'analisi quantitativa ed esistenziale nel campo delle equazioni funzionali lineari dall'attività di coloro, che hanno lavorato nell'ambito dell'Istituto.
A me pare che tali contributi possano nel loro insieme costituire una solida base per quei progressi nell'Analisi matematica pura e applicata a cui è lecito oggi sperare, specie dopo l'invenzione di macchine calcolatrici di elevatissima potenza.

L'analisi del valore intrinseco dei risultati ottenuti è stata già fatta da Fichera e non è il caso di ripeterla. Qui basti solo avvertire, ancora ricorrendo ad un altro scritto di Fichera43, che l'analisi funzionale come si sviluppò in Italia è connotata da un carattere fortemente concreto che fa singolare contrasto con quello generalmente astratto con cui essa si sviluppò in altri paesi “grazie a procedimenti di natura algebrica e strutturale poco coltivati nel nostro paese”. Ciò è evidente nei lavori di Picone, di Caccioppoli e della scuola uscita dall'INAC perché lì non si concepivano “i metodi astratti di per sé, ma come strumenti che permettevano di risolvere problemi di applicazione”. Questa caratteristica, secondo Fichera, è comune anche ad altri autori, sicché “l'analisi funzionale italiana, proprio a causa di questa costante ricerca del concreto, è rimasta estranea alle grandi correnti di sviluppo della teoria all'estero, dove l'analisi funzionale è piuttosto considerata come una dottrina in sé”.
È comunque per la notevole (qualitativamente e quantitativamente) attività dell'INAC che l'UNESCO scelse l'Italia, nel 1951, come sede per un progettando “Centro internazionale di calcolo”  (ICC) in Europa. La relazione fu firmata da Herman H. Goldstine e la sede scelta doveva essere Roma, preferendo così l'Istituto di Picone agli analoghi Istituti, olandese (il “Matematish Centrum”, fondato nel febbraio 1946 e diretto da Van der Corput) e austriaco (diretto da Eduard Stiefel). L'ICC avrebbe dovuto essere l'analogo, per l'analisi numerica e la matematica applicata, di ciò che il CERN era per la fisica nucleare. Il confronto che Goldstine fece dei 3 Istituti di calcolo presenti allora in Europa, risultò favorevole all'INAC e nella sua relazione, come scrive Fichera nel necrologio di Picone (Fichera 1978), “si può leggere un vero attestato di merito alla scienza italiana ed, in particolare, all'opera di Picone”:

(Goldstine Parigi 26-30 novembre 1951)

L'UNESCO fece sua la proposta di Goldstine e alla Conferenza di Parigi del 1951 (l'Italia vi era rappresentata da Bompiani, Picone e Severi) fu approvata una Convenzione che stabiliva in Roma la sede dell'ICC e che avrebbe cominciato a funzionare appena almeno 10 Paesi avessero ratificata la Convenzione stessa. E ciò avvenne ben dieci anni dopo la Conferenza, quando Picone era ormai in pensione, sicché il primo Direttore dell'ICC fu lo svedese Stig Comet (l'unico che avesse presentato domanda al concorso promosso dall'UNESCO).



3. L'autonomia professionale