Formatosi il Regno d'Italia, il ministro Matteucci, nel 1862, realizzava il progetto De Sanctis di riforma della scuola granducale: veniva aumentato il numero dei convittori e degli aggregati (i primi per la classe di lettere ed i secondi per quella di scienze) e fu aperto l'ingresso a tutti gli italiani. La “Normale” compiva così il salto verso una dimensione nazionale. Gli uomini eminenti cui fu affidata la direzione, la scelta dei professori interni, l'alto valore degli insegnanti dell'Università fecero sì che la “Normale”, pur con mezzi economici talvolta limitati, diventasse presto uno dei centri più importanti del progresso degli studi letterari e scientifici in Italia. A differenza delle Università, la “Normale” era un ambiente fortemente concentrato, in cui confluivano a seguito di un concorso piuttosto selettivo giovani studenti da tutta la Toscana prima, e poi da tutta l'Italia. Posti in un contesto stimolante e competitivo, e in contatto continuo con i loro professori, gli studenti potevano dare il meglio di sé e trarre il massimo profitto dai loro studi.
I risultati non si fecero attendere: dalla Scuola Normale uscirono in breve tempo un numero considerevole di matematici di ottimo livello, tutti influenzati in un modo o nell'altro dalle ricerche di Betti e dei suoi collaboratori, ma allo stesso tempo educati a non seguire pedissequamente il cammino tracciato, ma a confrontarsi con la comunità matematica internazionale, traendo da essa stimoli e indirizzi di ricerca. Questa costante apertura fu uno dei princìpi ispiratori di Betti. Come ci ricorda Luigi Bianchi (1856-1928) nella sua commemorazione di Ulisse Dini, quest'ultimo aveva rivolto la sua attenzione, stimolato anche dalle ricerche Weierstrass e della sua scuola, alla mancanza di rigore di molte dimostrazioni, e si era dedicato “all'ardua impresa di riedificare, sopra solide fondamenta, tutto l'edificio dell'analisi. (...) Convien dire che queste ricerche avevano riscosso, fin dal principio, il pieno consenso e il plauso del Betti; e non è questo piccolo titolo di merito pel maestro, ove si pensi che i nuovi studi venivano a sconvolgere, in gran parte, l'edificio che egli, come quasi tutti i matematici del su tempo, aveva finora ritenuto perfettamente sicuro in tutte le sue parti”. A coronamento di questi studi, iniziati nei primi anni ’70, Dini pubblica nel 1878 i notissimi e famosissimi Fondamenti per la teorica delle funzioni di variabili reali (Nistri, Pisa), dove i principali concetti dell’Analisi, a partire da quello di numero reale che solo tre anni prima aveva visto la prima sistemazione rigorosa per opera di Dedekind, Cantor e di Meray, vengono esposti col massimo rigore e la più grande generalità. Il testo del Dini resterà un classico per molti anni, e sarà tradotto in tedesco nel 1892, anche se l’idea risale all’epoca della sua pubblicazione per iniziativa dello stesso Cantor. Ecco quello che scrive Cantor in una sua lettera a Dedekind del 29 dicembre 1878 (da Halle)3: “Lei deve aver senza dubbio aver ricevuto il libro: «Fondamenti per la teorica delle funzioni di variabili reali di Ulisse Dini, Pisa 1878». È un'opera che mi sembra redatta da qualcuno che conosce l'argomento ed è molto abile; per l'introduzione dei numeri si serve del suo metodo”. Cantor ritorna poi sull’argomento in un’altra lettera a Dedekind del 18 gennaio 1880, nella quale leggiamo: “L'occasione per la quale chiedo oggi il suo consiglio riguarda il libro di Dini “Fondamenti”. Sebbene sia un po' lungo, mi è subito parso appena è uscito che fosse desiderabile, per non dire indispensabile, tradurlo in tedesco; io infatti, pur avendo avuto già dieci anni fa l'idea di scrivere un lavoro come questo e avendo già pronto tutto il materiale indispensabile, non posso poi passare all'esecuzione perché me lo impediscono l'insegnamento e molti altri lavori, e passerà molto tempo prima che possa dedicarmi a un'elaborazione così dettagliata. Ma tutte o quasi le volte che faccio lezione ai miei uditori mi rendo conto di quanto sia necessario un lavoro come quello di Dini.
Io però non posso sobbarcarmi a questa traduzione da solo, soprattutto perché non conosco molto bene l'italiano. Sarei però in grado di aiutare qualcun altro e di curare la stampa con lui.
Per il resto ho già conquistato a questa idea un editore importante un anno fa4.
Mi farebbe piacere sentire che cosa ne pensa lei; senza contare che forse lei è anche in grado di propormi qualcuno adatto a questo scopo, cosa di cui le sarei molto grato”.
Nel giro di venti anni, dal 1864 al 1884, si laurearono a Pisa, alla Scuola Normale o all'Università, una serie di matematici che avrebbero in breve tempo trasformato radicalmente la scuola matematica italiana, portandola al rango di una delle massime del continente. Il primo fu l’appena citato Ulisse Dini (1845-1918), che dopo la laurea nel 1864 e dopo un anno passato a Parigi, dove aveva studiato con Bertrand e Serret, nel 1866 venne nominato professore all'Università di Pisa. Del soggiorno del ventenne Dini a Parigi abbiamo le sue lettere a Betti, preziosa testimonianza dell’apprendistato di un matematico del neonato Stato italiano. Ecco, per esempio, la prima (datata: Parigi, 18 gennaio 1865):
“Ill.mo Signor Professore
Soltanto nella scorsa settimana mi presentai a M. Bertrand e a M. Bonnet. I medesimi mi accolsero nel modo il più gentile e mi si offersero per qualunque occorrenza; sono io perciò ora a ringraziarla di avermi dato Lei il mezzo di conoscere tali persone.
M. Bonnet studia adesso le superficie applicabili. Esso ha applicato l’equazione data dal Bour alla ricerca delle superficie applicabili su quelle di area minima; ma quantunque l’equazione si sia ridotta per quel caso a una forma più semplice, non si sa però ancora integrarla. Egli ha inteso con piacere che io abbia dato quella equazione pel caso generale, poiché, come mi diceva stamani, quella del Bour non si applica che per le superficie d’area minima. Gli ho portato stamani ciò che presentai al Concorso con qualche cosa che ho fatto qua, perché mi dica cià che vi ha di nuovo: dopo porterò il nuovo a Bertrand che mi ha detto di// presentarlo all’Accademia. M. Bertrand si occupa ora del nostro Galileo. Egli desidererebbe perciò di avere almeno il discorso che fu fatto l’anno scorso in Pisa nell’occasione del Suo Centenario; e siccome io gli ho promesso di procurarglielo sono perciò a pregarla di farmi sapere se fu stampato (cosa che credo che Ella saprà): in tal caso scriverò a qualcuno che me lo procuri.
Ho inteso da una lettera del Prof. Beltrami il suo consiglio. Vorrei poterlo accettare subito, ma come fare a andare in Germania, conoscendone poco o punto la lingua?
Le unisco qui il mio indirizzo che è: Paris. 12 Rue des Grés quartier de la Sorbonne, perché ella possa scrivermi, come restammo, sia per darmi le sue nuove o i suoi consigli che mi riesciranno sì le une che gli altri graditissimi, sia per incaricarmi di qualche cosa in cui di quà io possa servirla, il che// mi sarebbe pur gradito.
A Lezione non vi vado quasi mai perché concludo più studiando da me. Ora sono dietro a una maledetta equazione a derivate parziali, integrata la quale avrei un carattere delle superficie di cui uno dei sistemi di linee di curvatura è pure sistema di linee geodetiche. Spero di riescire a fare l’integrazione, poiché sebbene l’equazione sia del 2° ordine, è però semplicissima. Se non altro tenterò col metodo della variazione delle costanti arbitrarie, poiché già si può dire di conoscere un integrale particolare nella superficie di rivoluzione.
Di giovani mandati dal Governo Italiano vi è un certo Vecchi che ha studiato a Parma e ha il posto di Bologna. Non so però che genere sia poiché anche dagli altri Italiani fu visto il primo giorno, e// non è stato più visto. Vi è poi Uzielli che si occupa di Chimica e Cristallografia5. Studia perciò le proprietà delle curve ottiche, tori etc. etc. Il medesimo mi ha pregato di farle i suoi saluti.
Quà io mi sono tovato benissimo. Soltanto nei primi giorni ho sentito un poco di nostalgia.
Inanto pregandola a passare i miei più distinti saluti anche agli altri miei Professori che avrà l’occasione di vedere, passo al piacere di segnarmi (...).”
Insieme a Betti, Dini sarà il motore dei successivi sviluppi della matematica a Pisa. Nel 1866 si laurea Ernesto Padova (1845-1896), che fu a sua volta maestro di Tullio Levi-Civita (1873-1941) a Padova, nel 1867 Eugenio Bertini (1846-1933), nel 1868 e 1869 rispettivamente Giulio Ascoli (1843-1896) e Cesare Arzelà (1847-1912).
Seguirono poi nel 1874 Salvatore Pincherle (1853-1936), che a Bologna, dove insegnerà dal 1881, fu a sua volta insieme ad Arzelà tra gli iniziatori di una fiorente scuola di analisi, nel 1875 Gregorio Ricci-Curbastro (1853-1925), maestro e poi collaboratore di Levi-Civita in una famosa Memoria del 1900 sul Calcolo differenziale assoluto, e fondatore insieme a lui e a Luigi Bianchi, che si era laureato nel 1877, della scuola italiana di geometria differenziale. Nel 1881 fu la volta di Carlo Somigliana (1860-1955), e nel 1882 di Vito Volterra (1860-1940), uno dei maggiori, se non il maggior matematico del primo secolo dello Stato unitario, che darà uno straordinario impulso all'Analisi e alla Fisica matematica.
Il caso di Volterra è sintomatico delle possibilità offerte da una istituzione come la Scuola Normale. Diplomato all'Istituto Tecnico di Firenze, le sue condizioni economiche gli avrebbero impedito di continuare gli studi se non avesse avuto la fortuna di incontrare il fisico Antonio Roiti (1843-1921), che era stato anch'egli studente di Betti a Pisa6, e che lo nominò “preparatore” all'Istituto di Fisica di Firenze, consentendogli così di partecipare al concorso per la Scuola Normale l'anno seguente.
Contemporaneamente a Volterra, si laureava Rodolfo Bettazzì (1861-1941), che fu tra i fondatori della Mathesis, la prima associazione italiana tra i matematici, e nel 1884 Luigi Berzolari (1863-1949), allievo di Bertini. Sempre nel 1884 si laurearono Cesare Burali Forti (1861-1931) e Mario Pieri (1860-1913), che più tardi parteciperanno alle ricerche logico-fondazionali di Peano. Ancora nel 1891 si laureava a Pisa Federigo Enriques (1871-1946), che completerà poi la sua formazione a Torino con C. Segre e a Roma con G. Castelnuovo, e successivamente anche Giuseppe Vitali (1875-1932) e Guido Fubini (1879-1943). Ai primi del ‘900 arrivano, infine, a Pisa Eugenio Elia Levi (1883-1917) e Mauro Picone (1885-1977).
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3. La matematica a Torino
Dei tre matematici che dirigevano de facto gli Annali di Matematica dal 1858, il solo Genocchi non aveva partecipato al “mitico” viaggio in Francia e Germania di quell’anno. Angelo Genocchi si era laureato in giurisprudenza a Piacenza nel 1838, e dopo aver esercitato la professione di avvocato era stato nominato nel 1845 professore di Istituzioni di diritto romano alla locale Università. I moti del 1848 e la successiva reazione determinarono una svolta nella sua vita: rifugiatosi a Torino, non volle rientrare a Piacenza neanche quando la politica moderata del governo austriaco glielo avrebbe permesso. A Torino, da autodidatta, comincia lo studio della matematica, interessandosi soprattutto alla Teoria dei numeri. Nel 1859 diviene professore prima di Algebra, poi di Calcolo infinitesimale. Anche se i suoi lavori contenevano spunti interessanti, non diede contributi importanti alle matematiche, ed è oggi ricordato soprattutto come maestro di Giuseppe Peano (1858-1932), che nel 1884 pubblica un trattato ispirato alle sue lezioni, corredato con importanti aggiunte [A. Genocchi, Calcolo differenziale e principii di calcolo integrale, pubblicato con aggiunte dal Dr. Giuseppe Peano, Bocca, Torino].
Spirito critico e assertore del rigore assoluto in matematica, Peano si distinse prima per importanti contributi di Analisi, dimostrando un teorema di esistenza per equazioni differenziali e scoprendo la curva che porta il suo nome, e che riempie tutto un quadrato, per rivolgersi poi alla logica e ai fondamenti della matematica. In questo campo è da segnalare la formulazione assiomatica dell'aritmetica del 1889 [Arithmetices principia nova methodo exposita, Bocca, Torino], e soprattutto la determinazione di un sistema di simboli logici, alcuni dei quali sono poi entrati nell'uso, mediante i quali insieme a un certo numero di collaboratori entusiasti, tra i quali vanno almeno citati Mario Pieri (1860-1913), Cesare Burali-Forti (1861-1931), Giovanni Vailati (1863-1909) e Alessandro Padoa (1868-1937), iniziò un gigantesco programma di riscrittura rigorosa della matematica.
Da questo progetto, come da quello relativo alla lingua internazionale, Peano fu completamente preso e quasi ossessionato, al punto da tenere le sue lezioni universitarie nel formalismo simbolico; un atteggiamento questo che gli causò non poche difficoltà con i colleghi della facoltà, e che fu una delle principali ragioni del passaggio di Peano dall'insegnamento dell'analisi a quello di Matematiche complementari.
Ma a Torino, contemporaneamente alle ricerche logico-matematiche di Peano e della sua scuola, si sviluppa anche un altro filone di studi, relativo alla geometria algebrica delle curve e delle superficie.
Sappiamo già che l'iniziatore di queste ricerche in Italia era stato Luigi Cremona, che aveva dato un forte impulso allo studio della geometria proiettiva. Ma il punto di irradiazione della scuola italiana di geometria algebrica sarebbe stato Torino, dove nella tradizione cremoniana si innestano le idee della scuola tdesca di Felix Klein (1849-1925) e, soprattutto, di Max Noether (1844-1921). A Torino, nel 1872, era arrivato da Napoli, dove aveva studiato irregolarmente, Enrico D'Ovidio (1843-1933), anche lui cultore di geometria proiettiva, ma noto più che per i suoi studi, che in parte riprendevano temi affrontati da Francesco Faà di Bruno (1825-1888), per aver avuto come allievo Corrado Segre (1863-1924), che laureatosi nel 1883 è già professore nel 1888, a venticinque anni!.
L'influenza di Segre sull'ambiente geometrico italiano fu notevole soprattutto per la quantità di nuove idee che da lui ebbero origine e dalle quali Guido Castelnuovo (1865-1952), Federigo Enriques (1871-1946) e Francesco Severi (1879-1961) trassero ispirazione nella loro opera di fondazione della geometria algebrica italiana. Meno importanti i risultati specifici ottenuti, anche perché, come ebbe a dire Castelnuovo nella commemorazione dell’amico, la sua ricerca si svolse quasi interamente nell'ambito della geometria proiettiva, e quindi “mentre egli aspira ad aprire nuove vie all'indagine geometrica, non si sforza poi di percorrere queste vie fin dove appaiono feconde. La ricerca di semplicità ed eleganza che rende così attraenti i suoi scritti, l'avversione per i ragionamenti complicati ove si riveli lo sforzo, per i procedimenti arditi ai quali talora si è costretti a ricorrere nella fase della scoperta, lo hanno forse trattenuto dal troppo inoltrarsi nelle regioni che aveva cominciato ad esplorare”.
All'insegnamento di Segre si può far risalire la nascita della scuola italiana di geometria algebrica. Dei suoi protagonisti, il più anziano fu Guido Castelnuovo. Dopo gli studi a Padova, dove si era laureato nel 1886 con Giuseppe Veronese (1854-1917), Castelnuovo era andato a perfezionarsi a Roma, sotto la guida di Cremona. Ma l'anziano maestro era troppo preso dai suoi doveri istituzionali, e dopo poco tempo Castelnuovo partì per Torino, dove venne nominato assistente di D'Ovidio e subì l'influenza di Segre. Il periodo torinese di Castelnuovo si svolse tutto sotto il segno del programma di Segre di studio della geometria proiettiva delle curve, che egli cominciò ad estendere nella direzione della geometria delle superfici.
In questo indirizzo di ricerca, Castelnuovo trovò immediatamente un importante collaboratore in Federigo Enriques. Quest'ultimo si era laureato nel 1891 a Pisa, dove aveva avuto modo di incontrare Eugenio Bertini, e subito dopo si era recato a Roma, attratto anche lui da Cremona. Qui Enriques conobbe Castelnuovo, che vi si era trasferito nel 1891 come vincitore della cattedra di Geometria, con cui strinse subito un fortissimo legame sia scientifico che personale. Dalla collaborazione dei due giovani matematici, poi divenuti anche cognati, nacque la nuova teoria delle superfici algebriche.
Il soggiorno di Enriques a Roma durò fino al 1896, quando venne nominato professore a Bologna, dove resterà fino al suo rientro definitivo nella capitale nel 1922, continuando la sua collaborazione con Castelnuovo fino a quando quest'ultimo, dopo il 1910, cesserà praticamente di occuparsi di geometria algebrica.
Sempre a Torino si collega la formazione di Francesco Severi, che si laureò nel 1900 con Segre, e che passò nel 1902 a Bologna, dove fu assistente di Enriques, e l'anno successivo a Pisa, con Eugenio Bertini (1846-1933). Nel 1904 fu nominato professore a Parma, e l'anno seguente a Padova, dove restò fino al 1921. Da Padova Severi si trasferì a Roma, dove iniziò una folgorante carriera accademica che lo vide rettore dell'Università nel 1923, accademico d'Italia nel 1929 e nume indiscusso della matematica italiana fino alla caduta del fascismo.
Rispetto a quello di Castelnuovo ed Enriques, l'approccio di Severi alla geometria algebrica era più attento agli sviluppi dell'algebra che si verificavano in Europa, anche se mancò una reale acquisizione di nuovi punti di vista che venivano elaborati altrove, e che a lungo andare dovevano lasciare gli studiosi italiani su posizioni arretrate.
Non può essere taciuto, in questa rapida panoramica, il nome di Gino Fano (1871-1952) che, ancora studente, su invito di Segre e con la sua supervisione, aveva curato la traduzione italiana del Programma di Erlangen di Felix Klein. Fano conclude gli studi universitari nel 1892, con una tesi di laurea di geometria iperspaziale che risente apertamente dell'influenza sia di Segre, sia di Castelnuovo. Dopo un anno di assistentato (1892-93) con Enrico d'Ovidio presso l'Università di Torino, Fano trascorre un periodo di perfezionamento a Göttingen. Rientrato in Italia, dopo aver rifiutato una cattedra offertagli da Klein, diventa professore a Messina nel 1899 e due anni dopo rientra a Torino, per emigrare poi neli Stati Uniti, nel 1939, in conseguenza delle leggi razziali
A Torino si laurea, nel 1896, anche Beppo Levi (1875-1961), che per i tre anni successivi fu assistente di Luigi Berzolari (1863-1949), che era stato chiamato a Torino nel 1893 a ricoprire la cattedra di Geometria proiettiva e descrittiva. Dopo essere stato alcuni anni assistente di Segre e professore nelle scuole secondarie, nel 1906 Levi andrà a insegnare all'Università di Cagliari e poi a Bologna. A fine secolo, infine, si laureano con lode a Torino due altri giovani di valore, Alberto Tanturri (1877-1924) nel 1899 e Giovanni Zeno Giambelli (1879-1953) nel 1901, entrambi allievi di Segre e entrambi con una tesi in geometria numerativa (quella parte della geometria algebrica legata al conteggio delle soluzioni di questioni geometriche mediante la teoria dell’intersezione).
Non può essere taciuta, in conclusione, una terza scuola scientifica che si sviluppa a Torino a fine Ottocento, quella di Fisica matematica. Nel 1893, infatti, arriva a Torino anche Vito Volterra, a ricoprire la cattedra di Meccanica razionale. Vi si fermerà fino alla chiamata a Roma nel 1900, sostituito poco dopo dal coetaneo, amico e condiscepolo normalista Carlo Somigliana (1860-1955), allievo di Beltrami e Casorati a Pavia e di Betti e Dini a Pisa, noto per i suoi risultati in teoria dell’elasticità. Ma Volterra tornerà a Torino ancora nel 1906, quando collabora con Valentino Cerruti e Paolo Boselli, Presidente di quel Museo Industriale, per realizzare la fusione tra il Museo e la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri. Così, il 23 giugno 1906, nasceva ufficialmente il Politecnico di Torino.
4. L’influenza di Pisa: la matematica a Padova e Bologna
Nelle due città del titolo di questo paragrafo, che sono sedi universitarie fra le più antiche, gli studi matematici hanno alternato periodi felici ad altri di minore rilevanza. A Padova, intorno alla metà dell'Ottocento, insegna Giusto Bellavitis (1803-1880), un autodidatta che otterrà la laurea nel 1845, quando è già docente di Geometria descrittiva all’Università (dopo un breve periodo di insegnamento al liceo di Vicenza). Bellavitis è considerato uno dei fondatori della tendenza vettorialista in Italia, sebbene il suo “calcolo delle equipollenze” non abbia avuto molto seguito. Sicché il vero decollo della ricerca matematica moderna a Padova si ha solo dopo la sua morte, quando giungono – quasi contemporaneamente – Gregorio Ricci-Curbastro (1853-1925) nel 1880, e Giuseppe Veronese (1854-1917) nel 1881, seguiti nel 1882 da Ernesto Padova (trasferitosi da Pisa sulla cattedra di Meccanica superiore). Alcuni anni prima, nel 1872, era stato chiamato a Padova Antonio Favaro (1847-1922) proveniente da Torino e, nel 1878, il matematico sardo Francesco Flores dei marchesi D’Arcais (1849-1896), per il calcolo infinitesimale. D’Arcais si era laureato nel 1869 a Pisa, rimanendovi quale assistente di Dini alla Scuola Normale. Poi aveva insegnato a Cagliari e Bologna.
Le vicende personali di Ricci-Curbastro e Veronese sono totalmente diverse. Il primo proveniva anch’egli dalla scuola di Pisa, dove aveva studiato con Dini e Padova. Veronese, al contrario, non aveva potuto seguire un corso di studi regolare a causa delle sue condizioni economiche, e si era formato come matematico con il matematico tedesco Georg Frobenius (1849-1917) durante il periodo del suo insegnamento al Politecnico di Zurigo. Dal 1876 aveva poi proseguito gli studi con Cremona a Roma, dove ancor prima di laurearsi era stato nominato assistente di geometria proiettiva e descrittiva. Nel 1880 era andato a Berlino e poi a Lipsia, dove aveva subito anch’egli l'influenza di FeIix Klein.
La presenza contemporanea di Ricci-Curbastro e Veronese, l'uno orientato verso ricerche di geometria differenziale, l'altro più attento alla geometria degli spazi a più dimensioni, ebbe importanti successi nella formazione di matematici di valore, tra cui i più importanti furono Guido Castelnuovo, che iniziò i suoi studi con Veronese prima di trasferirsi a Roma nel 1886 e poi a Torino, e Tullio Levi-Civita, studente di Ricci-Curbastro, che fu il massimo cultore di geometria differenziale del Novecento. Levi-Civita fu anche professore a Padova dal 1897 al 1919, quando fu chiamato a Roma. In quegli anni era a Padova anche Francesco Severi, che vi insegnò dal 1905 al 1921, data alla quale anch'egli si trasferì a Roma. Anche Ugo Amaldi (1875-1957) insegna a Padova, ma anch’egli preferisce seguire gli amici Levi-Civita e Enriques all’Università di Roma. E analogo abbandono l’Università è costretta a subire da parte di Giuseppe Vitali (1875-1932), anch'egli allievo di Dini a Pisa, che insegna a Padova dal 1924 al 1930, data in cui si trasferisce a Bologna.
Qui, nella più antica università del mondo occidentale ancora oggi esistente, nel 1860 era stata istituita una delle due cattedre di Geometria superiore volute dal governo del nuovo Stato unitario e affidata a Luigi Cremona. Poi Cremona era andato a Milano, chiamato da Brioschi al Politecnico, e anche a Bologna bisognerà attendere gli anni ’80 per avere presenze matematicamente significative. Queste portano il segno di Pisa e parlano il linguaggio dell’analisi reale del magistero di Ulisse Dini. Dalla sua scuola erano infatti usciti Giulio Ascoli (1843-1896), laureatosi alla “Normale” nel 1868, poi docente al Politecnico di Milano; Cesare Arzelà (1847-1912), laureatosi alla “Normale” nel 1869; Salvatore Pincherle (1853-1936), laureatosi nel 1874, e Vito Volterra, che abbiamo già incontrato e che ancora incontreremo.
Le profonde indagini di Ulisse Dini sulle funzioni di variabile reale, esposte nei Fondamenti e sviluppate nel suo magistero pisano, furono continuate dai suoi allievi Giulio Ascoli (18431896), Cesare Arzelà (1847-1912) e Vito Volterra (1860-1940).
Cesare Arzelà cominciò ad occuparsi di funzioni di variabile reale negli anni del suo trasferimento all'Università di Bologna (da quella di Palermo, dove era arrivato nel 1878, fresco vincitore del concorso per l’Algebra), chiamatovi insieme a Pincherle nel 1880. Nella sua commemorazione di Arzelà, tenuta nel 1912 al Seminario matematico dell'Università di Roma, Volterra ricordava che i “suoi migliori lavori sono gli ultimi, quelli che egli ha compiuto nell'età matura e superano largamente quelli che egli ha fatto in più giovane età. I risultati conseguiti nel campo dell'integrazione e delle serie sono classici, tanto che i teoremi di Arzelà sono ovunque citati ed applicati” 7.
Volterra cita anche le perplessità che si riscontravano negli ultimi decenni dell’Ottocento nei confronti degli studi delle funzioni di variabile reale, dopo che lo stesso Dini se ne era allontanato e che il suo erede scientifico Luigi Bianchi si orientava verso l’algebra e la geometria differenziale. Non era prudente, e il caso di Vitali – lasciato a lungo nell’insegnamento medio – ne è una prova, che un giovane rischiasse la sua carriera scientifica su un campo, come quello delle funzioni di variabile reale, riguardo al quale, secondo la testimonianza di Volterra, persisteva “il dubbio delle utilità e delle applicazioni di questi studi e fu detto che in natura solo le funzioni regolari compaiono e solo queste hanno speranza di avere applicazioni. Mentre la teoria delle funzioni analitiche aveva conquistato quasi tutti i matematici nell'ultimo trentennio [...] e le teorie d Cauchy, di Riemann, Weierstrass e di Hermite erano studiate e seguite da tutti, solo un piccolo numero di studiosi coltivava pazientemente [...] la teoria delle funzioni di variabili reali. L’Italia fu uno dei centri più reputati di questi studi [e] Arzelà rappresentò una delle figure più notevoli della scuola italiana”.
Allievo di Arzelà a Bologna fu appunto Vitali (1875-1932), che si iscrisse all'Università nel 1895. Nel 1897 si trasferì a Pisa come allievo della Scuola Normale Superiore, dove seguì le lezioni di Bianchi, di Dini e di Bertini e si laureò nel 1899 con una tesi sulle funzioni analitiche sulle superfici di Riemann. Dopo alcuni anni passati come perfezionando aHa Scuola Normale, andò a insegnare nella scuola media di Voghera, e di lì riprese i contatti con Arzelà, ottenendo presto dei risultati molto importanti nd campo deH'integrazione di Lebesgue e dell'analisi reale.
Leggermente diverso da quello di Arzelà è il percorso scientiico seguito da Pincherle. Questi, dopo la laurea, continua i suoi studi a Pavia (con Casorati) e soprattutto a Berlino, con K. Weierstrass. Il soggiorno tedesco è essenziale per comprendere le linee di sviluppo della ricerca di quello che è considerato uno dei pionieri dell'Analisi funzionale, attraverso il particolare riferimento fornito dalla teoria delle funzioni analitiche. La constatazione che ognuna di queste può essere individuata da un'infinità numerabile di parametri, interpretabili come sue coordinate, porta Pincherle alla considerazione di spazi funzionali di dimensione infinita e allo studio astratto dei funzionali lineari che agiscono su questi spazi, nel tentativo di costruire per questi funzionali un calcolo simile a quello ormai noto per le funzioni di una variabile complessa. Queste nozioni subiranno nel giro di pochi decenni sviluppi e approfondimenti impensabili, ancora all'inizio del secolo, anche lungo direzioni diverse. Quella percorsa da Pincherle non sarà forse la più affollata, come lui stesso avrà modo di riconoscere serenamente.
Dopo il breve soggiorno a Berlino, Pincherle si trasferisce definitivamente a Bologna, che diventa con Pisa un nuovo centro significativo per le ricerche in Analisi. L'esponente più rappresentativo della scuola bolognese è Leonida Tonelli (1885-1946), che sarà uno dei massimi protagonisti della Matematica italiana nel periodo tra le due guerre mondiali. Studia, con Arzelà e Pincherle, a Bologna dove si laurea nel 1907. La sua carriera accademica – come professore ordinario – per diversi motivi comincia però solo dopo la guerra (a Bologna e a Pisa). Ma già prima del 1915, Tonelli scrive lavori molto importanti – tra i più significativi della sua produzione – almeno nel campo dell'Analisi reale e del Calcolo delle variazioni.
Un notevole impulso all’attività matematica nell’Università di Bologna verrà dall’arrivo di Federigo Enriques che appena ventitreenne terrà, il 20 gennaio 1894, la sua prima lezione di Geometria proiettiva. Enriques resterà a Bologna per più di un ventennio (fino al 1922, quando anch’egli si trasferisce a Roma) e farà scuola.
5. La scuola matematica di Napoli
L’Università di Napoli, la più antica tra quelle ancora esistenti a fondarsi su un provvedimento sovrano, nasce con la generalis lictera di Federico II inviata da Siracusa il 5 giugno 1224. L’Università però, a partire dal Seicento, dovrà condividere con le scuole private il privilegio della formazione. Per quanto riguarda l’insegnamento della matematica fino al 1860 la situazione si può così riassumere: le cattedre di matematica, che erano solo due nel 1735 (Geometria, Astronomia e nautica), diventano quattro nel 1777 (Matematica analitica, Matematica sintetica, Meccanica, Astronomia e calendario) e costituiscono una Facoltà autonoma con l’aggiunta di altre due cattedre (Geografia e nautica, Architettura civile e geometria pratica). Con la riforma di Giuseppe Bonaparte del 1806 le cattedre restano sei (anche se con nomi leggermente diversi), mentre scendono a quattro con la riforma di Murat del 1811, ma all’interno di una Facoltà di “Matematica e Fisica” che ne prevede altre undici a indirizzo naturalistico.
Col ritorno dei Borboni nel 1816 viene mantenuta la Facoltà di “Matematica e Fisica”, ma il numero delle cattedre è riportato a sei (Geometria piana e solida, Analisi elementare, Matematica sublime sintetica, Analisi sublime, Meccanica, Astronomia). Tale ordinamento restò in vigore fino al 1850, anno in cui viene ricostituita la “Facoltà di Matematica” con sette cattedre: Geometria con esposizione dei metodi antichi e moderni; Algebra; Calcolo infinitesimale; Applicazione dell’algebra alla Geometria; Meccanica razionale; Meccanica applicata e Geometria descrittiva; Astronomia, Geodesia e Geografia matematica.
Altro luogo di formazione superiore era costituito, a volte con maggiore modernità rispetto allo Studio federiciano, dal Collegio Militare della Nunziatella, dal Collegio di Marina, dalla Scuola di Applicazione di Ponti e Strade e, infine, dai numerosi studi privati8.
Dopo l’Unità d’Italia, il Collegio di Marina fu ridotto al rango di Istituto secondario, mentre la Scuola di Applicazione di Ponti e Strade venne trasformata (1863) in Scuola di Applicazione per gli Ingegneri e poi (1904) in Scuola Superiore Politecnica. Quanto alla Facoltà di Matematica essa venne ristrutturata su undici cattedre (più due cattedre di “Disegno topografico” e “Disegno d’Architettura”):
Algebra complementare; |
Geometria analitica; |
Meccanica razionale |
Calcolo differ. e integ.; |
Geometria descrittiva; |
Geometria proiettiva9; |
Analisi superiore; |
Geometria Superiore; |
Astronomia; |
Geodesia; |
Fisica matematica. |
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Fino alla riforma Gentile del 1923, Napoli – unica tra le grandi università del Regno – ebbe così due distinte Facoltà di Scienze, una per quelle matematiche e l’altra per quelle naturali, fisiche e chimiche. Questa “anomalia”, com’è stata chiamata con felice scelta terminologica10, con la sua ricchezza di cattedre, ebbe un positivo impatto nel processo di sprovincializzazione della matematica napoletana e di adeguamento al livello delle sedi più importanti (Pisa, Pavia, Bologna). Per dare un’idea dei risultati raggiunti si pensi che fra il 1863 e il 1887 si laureano Gabriele Torelli (1849-1931), Giovanni De Berardinis (1846-1937), Pasquale del Pezzo (1859-1936), Alfonso Del Re (1859-1921), e Ernesto Pascal (1865-1940), tutti docenti nell’ateneo, e ancora Rubino Nicodemi (1850-1929) e Ulderigo Masoni (1860-1936), professori nella Scuola di Applicazione degli Ingegneri. A questi nomi vanno aggiunti quelli di Angelo Armenante (Roma), Vincenzo Mollame (Catania), Nicodemo Jadanza (Torino), Giuseppe Jung (Politecnico di Milano), Salvatore Ortu Carboni (Scuola Superiore di Commercio di Genova) e Giulio Pittarelli (Roma), professori di ruolo nelle sedi indicate in parentesi. Di scuola napoletana fu anche Enrico D’Ovidio (1843-1933), al quale come già si è visto spetta il merito di aver posto le basi, all’Università di Torino, su cui qualche tempo dopo il suo arrivo (1872), per opera prevalente del suo allievo Corrado Segre, fu fondata la maggiore scuola geometrica d'Italia. D’Ovidio si era formato nello studio privato di Achille Sannia (1822-1892), ottenendo la laurea, senza esami, solo nel 1869, dopo che già insegnava da alcuni anni alla Scuola di Marina e al Liceo «Umberto».
Uno degli artefici principali di questa “rincorsa” è certamente Giuseppe Battaglini (1826-1894) che, per quanto avesse studiato alla Scuola degli Ingegneri di Napoli e privatamente, può sostanzialmente considerarsi un autodidatta. Era stato anche, per breve tempo (1850), “alunno” dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte, da cui si era dimesso per non firmare una “spontanea” domanda al Re Ferdinando II di abolire la Costituzione del ‘48. Dopo la caduta dei Borboni, alla fine del 1860 era stato nominato professore di Geometria superiore nella riordinata Università di Napoli. Nel 1871 si era trasferito all'Università di Roma, rimanendovi quindici anni e fungendovi anche da Rettore e da Preside di Facoltà. Nel 1863 aveva fondato a Napoli il prestigioso «Giornale di Matematiche per gli tudenti delle Università italiane», i cui primi volumi erano concepiti come una vera palestra per gli studenti: contenevano infatti numerosi problemi proposti e risolti, discussioni, relazioni di corsi universitari, rassegne bibliografiche e critiche e sunti di lezioni. Fu solo al rientro a Napoli del Battaglini (1885) che la pubblicazione di Note e Memorie originali cominciò a prevalere e la Rivista assunse questo nuovo carattere nel 1894 quando, con il volume n. 32, ne assunse la direzione Alfredo Capelli (1855-1910), dando il via a una nuova serie con il titolo «Giornale di Matematiche di Battaglini».
Le chiamate a Napoli (1886) di Del Pezzo e dell’appena citato Capelli, assieme a quelle di poco posteriore di Ernesto Cesàro (1859-1906) e di Francesco Siacci (1839-1907), testimoniano l’avvenuta trasformazione della Facoltà matematica in “fulgido centro di sapere”11. Capelli era soprattutto un algebrista, Del Pezzo un geometra, Cesàro un cultore efficace e famoso di Teoria dei numeri e il Siacci, infine, un profondo cultore di Balistica e di Meccanica analitica. «Paradossalmente però – annota Miranda – costoro brillarono più di luce propria che come maestri, tanto che il fenomeno del proselitismo scientifico si ridusse di molto».
6. La matematica a Roma
È sufficientemente noto che la Roma del 1870 è una città culturalmente depressa, nonostante le iniziative prese da Pio IX nel corso del suo lungo pontificato (ben 36 anni, dal 1846 al 1878): l’Accademia dei Lincei, chiusa nel 1842 da Gregorio XVI e ricostituita nel 1847 con il nome di “Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei”, è un’accademia locale, i cui soci sono membri della nobiltà e docenti dell’ateneo romano, che non versa peraltro i condizioni migliori, fatta forse eccezione di qualche personalità di un certo rilievo scientifico. Tutti gli “stabilimenti scientifici” dell’Università avevano sede nell’antico edificio della “Sapienza”, così chiamato per l’iscrizione “Initium sapientiae timor domini” posta al suo ingresso. Ad esso si affincavano Palazzo Salviati alla Lungara, sede dell’Orto Botanico, e l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, dove avevano sede il gabinetto di anatomia e l’istituto chimico, ed il Campidoglio, dove aveva sede l’Osservatorio astronomico dell’Università.
Quattro sono gli insegnamenti di matematica nel 1870: Geometria analitica, Geometria descrittiva, Calcolo sublime e Meccanica razionale, tenuti rispettivamente da Luigi Biolchini, Enrico Gui, Barnaba Tortolini (1808-1874) e Domenico Chelini (1802-1878)12. Tortolini e Chelini, sacerdoti e matematici di chiara fama, abbandoneranno la Sapienza per ragioni politiche (e nel caso di Tortolini anche per ragioni di salute). Di Chelini, Giulio Pittarelli dice che fu destituito (con decreto del 18 dicembre 1864) per non aver prestato “il giuramento prescritto. E non potette, perché era ecclesiastico e per non dispiacere al Pontefice PIo IX: così mi disse una volta il Cremona, per averlo saputo dallo stesso Chelini”. E aggiunge: “È doloroso pensare come la fortuna e gi uomini fossero stati, in questa faccenda del giuramento, contrari a uno scienziato del valore del Chelini e a un religioso di carattere mite e buono come il suo”.
Dopo la “presa” di Roma, nel 1870, il governo veramente “italiano” nomina Brioschi “Consigliere di Luogotenenza” per il riodinamento degli Studi alla Sapienza, “e dell’opera sua – dice Pittarelli – riferì al Ministro della P. Istruzione il 20 gennaio 1871”. I provvedimenti presi furono il trasferimento di Biolchini alla cattedra di Algebra complemantare e quello di Gui alla cattedra di Architettura tecnica, sostituito nell’insegnamento della Geometria descrittiva prima da Guido Della Rosa, e successivamente da Eugenio Bertini. Nello stesso 1871 arriva da Napoli Giuseppe Battaglini (1826-1894), chiamato quale ordinario di Geometria superiore – la cattedra che già ricopriva a Napoli dal 1860, la seconda istituita dopo quella di Bologna assegnata a Cremona – e incaricato di Calcolo infinitesimale.
Nel 1873-74 troviamo Battaglini Rettore dell’Università di Roma e nel 1878 passa dalla Geometria superiore alla Geometria analitica, fino al 1885 quando – dice Pittarelli – “cedendo agli antichi colleghi di Napoli, vi tornò; ed ivi morì”. E prosegue: “coloro che, come il D’Ovidio, l’ebbero a maestro ripetono tutti quello che scrive il D’Ovidio stesso13: Non visse che pe rlo studio e per la Scuola. Per lui insegnare fu un bisogno della mente e del cuore. Perciò raccolse dovunque viva simpatia e profonda riverenza tra i colleghi e i tanti giovani che amorosamente indirizzò nelle vie della scienza; perciò sarà sempre ricordato con gratitudine ed affetto”.
Nel 1873 gli insegnamenti di Matematica si trasferiscono dalla Sapienza a San Pietro in Vincoli, presso la Scuola d’applicazione per gl’ingegneri, diretta da Luigi Cremona, chiamato a Roma in quell’anno insieme a Eugenio Beltrami, e che costituisce di fatto anche l’istituto matematico della Facoltà di scienze. Lì avranno sede la Scuola matematica e la Biblioteca.
Riguardo a Beltrami, ecco ciò che scrive Pittarelli: “Il Beltrami venne come professore ordinario di Meccanica razionale e incaricato di Analisi superiore; e così per l’anno sucecssivo. Poi nel 1875-76 l’incarico fu mutato in quello di Meccanica superiore; ma nell’ottobre di quello stesso anno passò all’Università di Pavia. Quindici anni dopo, cedendo di nuovo agli amici di Roma a capo dei quali era il Cremona, rientrò in questa Università a cominciare dall’anno scolastico 1891-92, desiderato e acclamato da colleghi e scolari14, finché morte immatura lo spense il 18 febbraio 1900, a 65 anni”.
Il recente ritrovamento della corrispondenza di Beltrami con il matematico francese Charles Hermite (1822-1901) consente di precisare le motivazioni che hanno indotto Beltrami ad accettare questo secondo trasferimento a Roma15. Le prime avvisaglie le troviamo nella lettera del 29 dicembre 1890: «Il mio animo è molto più traquillo questo inverno che l’inverno scorso, quando la compagna della mia vita era così gravemente ammalata. La Signora Beltrami sta abbastanza bene, malgrado il freddo rigido che c’è stato, e non oso desiderare meglio di ciò, in questa stagione che è la più ostile alla sua salute. Comincio però a riflettere seriamente se non mi convenga decidermi a un cambio di residenza, portandomi in un clima meno rude. Dopo la morte del mio povero Casorati, in effetti, nulla mi trattiene fortemente a Pavia. Ma è una questione grave, sulla quale avrò tempo di riflettere nel corso dell’anno scolastico».
E nella lettera del 12 marzo 1891: «Io ho ancora un altro motivo di preoccupazione [oltre la salute della moglie] di cui credo di avergliene già parlato di sfuggita. I miei amici della Facoltà di scienze di Roma hanno fatto nuovi passi col Ministro per convincrmi a trasferirmi in quella città, e io non ho subito declinato l’invito, che mi era stato già fatto tante volte. Dopo la morte del mio eccellente collaga Casorati io non più, in realtà, alcun motivo particolare per restare dove mi trovo, e il pensiero che un clima più dolce potrebbe essere più favorevole al ristabilimento della salute della Signora Beltrami, mi fa assai propoendere ad accettare la proposta. Però i fastidi di un trasloco così radicale mi spaventano: mi preoccupo anche un poco della malaria e non posso dimenticare le febbri che ho subìto io stesso nella capitale dell’impero romano. Tutto ciò mi rende un po’ inquieto e mi fa desiderare sopratttutto che quest’anno passi presto, con i suoi dolori, le sue preoccupazioni e le sue incertezze».
E ancora, nella lettera del 24 giugno 1891, Beltrami ci da un altro particolare inedito: «È ormai deciso, o quasi, che dovrò andarmene a Roma: ma ciò sarà per il nuovo anno scolastico. Io mi ricordo, a tale proposito, che un professore molto distinto,ora in pensione, il Signor Tardy16, era stato invitato ad andare a prendere (ormai parecchi anni fa) la cattedra di analisi a Roma, che era scoperta. Tardy non rifiutò, formalmente, ma, scriveva al Ministro, “ occorrerebbe farmi ritrovare a Roma la mia casa, con la mia biblioteca, con tutte le mie carte in ordine, etc. così come si trovano a Genova” (dove Tardy allora abitava). Naturalmente la cosa non ebbe seeguito. Io vedo ora come Tardy avesse ragione di mettere tale condizione, sfortunatamente impossibile da soddisfare! E però io mi deciderò molto volentieri a questo bruttissimo sconvolgimento delle mie abitudini, perché ho la speranza che il clima dolce della città eterna sarà favorevole alla salute della Signora Beltrami. Solo che questa prospettiva disturba un po’ i miei attuali studi».
Come maestro, dice Pittarelli, “il suo nome fu dei più famosi, e si può leggere a questo proposito quello che scrive Valentino Cerruti17 nella commemorazione del 4 marzo 1900 ai Lincei, e che è riportato quasi «ad litteram» in quella, posteriore e più vasta, dal Cremona. Alle sue lezioi, come a quelle del Battaglini e del Cremona, solevano assistere anche assistenti o professori giovani della stessa Università: io, per un anno nel 1891-92, e non più giovane, fui assiduissimo a quelle sulla teoria dell’elasticità, e ne redigevo gli appunti giorno per giorno. Era veramente ammirabile il maestro: l’esposizione sua era di una limpidezza cristallina; e il quadro della lezione era perfetto in ogni sua parte: si sarebbe detto esser delineato da un artista. Discendeva, infatti, da famiglia di artisti: avo, padre e madre rispettivamente incisore di pietre dure, pittore miniatore, poetessa e musicista. E musicista era anche il nostro, educato prima dalla stessa madre, poi esercitatosi con Amilcare Ponchielli, coetaneo e concittadino suo: aveva una conoscenza scientifica della musica ed era abile e ispirato esecutore al piano, ma ritroso”.
E veniamo adesso a Cremona, che era stato chiamato a Roma dal Ministro Antonio Scialoja18 a dirigere la Scuola di applicazione per gl’ingegneri, che lo stesso ministro aveva – con decreto del 9 ottobre 1873 – riordinata e ampliata, mantenendola accademicamente annessa all’Università, ma separndola amministrativamente con bilancio a parte, con un Direttore nominato a vita, coadiuvato da un Consiglio direttivo di quattro membri, eletti metà tra i professori ordinari della facoltà. Nella Scuola di Applicazione il Cremona fu altresì professore rdinario di Statica grafica, mentre nella Facoltà di Scienze fu incaricato di Geometria proiettiva e superiore. Inoltre, presso la Scuola di Applicazione, analogamente a quanto fatto da Brioschi al Politecnico di Milano, venne fondata una Scuola normale superiore “per istruire e preparare professori d’Istituto tenico nella matematica, nella fisica e nelle scienze naturali; e vi tenevano conferenze così il Cremona come altri professori della Facoltà”. Ma questa Scuola normale, molto simile come impostazione alle Scuole di magistero per la formazione dei docenti delle scuole medie superiori, non ebbe molta vita.
Dopo cinque, nel 1878, il Cremona, pur conservando la carica di Direttore della Scuola di Applicazione, passò alla Facoltà di Scienze quale professore ordinario di Matematiche superiori. Anche di Cremona abbiamo, a parte le svariate commemorazioni, il giudizio di Pittarelli che fece in tempo a conoscerlo19: “È risaputo a quale alta estimazione egli avesse condotta la Scuola di Applicazione per gl’Ingegneri, quanto a serietà di studi e rigidità di disciplina; e coloro che lo ebbero a maestro sanno degli affettuosi consigli e dei validi aiuti loro dati, per ripetere (...) parole del prof. Bertini. Ma anche pel Cremona, come già pel Beltrami, posso aggiungere la mia esperienza personale. Io che studiai a Napoli non ebbi il Cremona a maestro; ma lo ebbi poi giudice benevolo nel concorso per la nostra Facoltà; e quando vi avevo già assunto l’insegnamento, volli tornare scolaro e lo feci per i due anni 1888-89 e 1889-90. Anch’egli come il Beltrami era artista nelle sue lezioni; ma, continuando il paragone tolto dalla pittura, direi che mentre il colore dei quadri del Beltrami era dolce, quello dei quadri del Cremona era forte di luci e di ombre, luci sfolgoranti ed ombre trasparenti, non buie; sicché su noi scolari facevano effetto sorprendente e impressione durevole”.
Concludiamo col dire che sul finire degli anni Settanta giungono a Roma oltre al già citato Cerruti, anche Alberto Tonelli (1849-1921), Nicola Salvatore-Dino (1843-1919) e Francesco Chizzoni (1848-1904). Negli anni Ottanta l’assetto della matematica rimane sostanzialmente stabile; nel 1887 la Geometria descrittiva passa a Giulio Pittarelli, mentre nel 1892 la Geometria analitica è affidata a Guido Castelnuovo e nel 1900, alla morte di Beltrami, viene chiamato a Roma Vito Volterra. Come vedremo, saranno proprio Castelnuovo e Volterra a traghettare la matematica romana nel nuovo secolo, con l’obiettivo di fare di Roma la capitale matematica d’Italia.
7. I matematici italiani e i problemi della didattica disciplinare
Abbiamo più volte accennato alla forte attenzione di alcuni matematici italiani agli aspetti didattici della disciplina. Alcuni autori sottolineano addirittura questa attitudine come una specificità italiana nel campo dell’educazione matematica italiana rispetto alla situazione europea20. Tale specificità consisterebbe nell’ampio numero di manuali scolastici (prevalentemente di geometria) di alto livello elaborati dai principali matematici del periodo risorgimentale che, offrendo un largo spettro di posizioni metodologiche diverse, animarono il dibattito sulla didattica disciplinare.
All’atto dell’unificazione del Paese, l’Italia eredita nel campo scolastico una situazione davvero pesante, dovuta principalmente alla disomogeneità sostanziale delle sue varie parti, cui solo marginalmente può mettere riparo l’estensione della Legge Casati21 a tutto il territorio nazionale. La situazione è resa ancora più difficile dalla mancanza di libri di testo adeguati e da un corpo docente mal retribuito che non trova nella burocrazia ministeriale alcun efficiente aiuto per recuperare una maggiore qualificazione professionale. È evidente quanto questa sarebbe stata necessaria: la scuola italiana nasceva mettendo assieme alla meglio un corpo docente ereditato dai precedenti Stati preunitari.
A questa situazione i matematici rispondono con una buona mobilitazione, non sempre ripresa nei decenni successivi. Solo per dare un’idea dell’attività istituzionale dispiegata nel primo trentennio di vita unitaria dai matematici italiani, abbiamo raccolto nella Tabella I l’elenco delle Riviste fondate (e nel caso degli Annali, rifondate) nel trentennio in discorso.
Ugualmente importanti gli sforzi tesi alla fondazione della scuola unitaria che si accompagnano a quelli per lo sviluppo di una ricerca scientifica paragonabile a quella europea. Nel 1869, in una lettera22 a Giuseppe Battaglini, fondatore e direttore del Giornale di Matematiche (che si suole indicare col suo nome), Francesco Brioschi e Luigi Cremona chiariscono il senso della proposta di introdurre nei ginnasi-licei lo studio diretto degli Elementi di Euclide23.
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