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Capitolo II - Una nuova generazione di matematici

 


La situazione descritta nel capitolo precedente comporta che almeno per il primo ventennio non può farsi una descrizione unica della vita matematica nel nostro Paese, perché le sedi degli studi superiori presentano situazioni molto diverse tra loro. Così, volendo descrivere la rinascita degli studi matematici già adombrata precedentemente, dovremo per forza di cose procedere con una rapida presentazione delle principali sedi matematiche. Cominceremo da Pavia, non solo per un criterio geografico – da Nord e Sud – ma soprattutto perché i matematici della scuola di Pavia – in primis Francesco Brioschi (1824-1897), Luigi Cremona (1830-1903), Felice Casorati (1835-1890) e Eugenio Beltrami (1835-1900) – ebbero un ruolo fondamentale nella rinascita degli studi matematici del nostro Paese, anche in virtù delle cariche politiche e amministrative di alto prestigio da loro rivestite. Ben due di loro, Brioschi e Casorati, compirono insieme a Enrico Betti (1823-1892) – futuro direttore della Scuola Normale di Pisa – lo “storico” viaggio dell’autunno del 1858 che, come già si è detto, si suole assumere a emblema della rinascita degli studi matematici in Italia.

 

1. Pavia culla della nuova generazione di matematici

A Pavia, l’Ateneo più antico della Lombardia e uno dei più antichi d’Europa (all’825 risale il capitolare dell’imperatore Lotario che costituì a Pavia la scuola di retorica per i funzionari del regno mentre è del 1361 la fondazione dello Studium Generale), aveva insegnato Vincenzo Brunacci (1768-1818), efficace e aggiornato trattatista e fondatore di una scuola che, attraverso i suoi allievi Antonio Bordoni (1788-1860) e Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863) si proietta fino al periodo che ci interessa, essendo stato, il primo, maestro di Brioschi, e, il secondo, maestro di Betti. Allievi, e poi colleghi, di Bordoni erano stati anche Gaspare Mainardi (1800-1879) e Delfino Codazzi (1824-1875). Mainardi fu il successore di Bordoni sulla cattedra di Calcolo e mantenne tale insegnamento fino al 1863; mentre Codazzi insegnò a lungo nelle scuole secondarie prima di essere nominato, nel 1865, professore di Geometria analitica all’Università di Pavia. I nomi di Mainardi e Codazzi ci rimandano alle celebri “formule di Gauss-Mainardi-Codazzi”, due relazioni di geometria differenziale che intercorrono tra i coefficienti della prima e della seconda forma fondamentale introdotti da Gauss nelle sue Disquisitiones generales circa superficies curvas (del 1827).
Allievo diretto di Bordoni, lo si è detto, fu Brioschi che nel 1852 divenne professore di matematica applicata all’Università di Pavia e, dal 1861 al 1862, fu segretario del Ministero della Pubblica Istruzione abbandonando temporaneamente l’insegnamento. Tipico esempio di matematico risorgimentale, Brioschi – che aveva partecipato nel 1848 alle Cinque Giornate di Milano – fondò nel 1858 insieme a Betti e a Angelo Genocchi (1817-1889) la rivista Annali di Matematica, sortasulle ceneri degli Annali di scienze matematiche e fisiche di Barnaba Tortolini (1808-1874), allo scopo di creare un giornale capace di diffondere le idee e le ricerche dei matematici italiani presso i colleghi stranieri. L’effetto di questa “operazione culturale” si vide nel periodo post-unitario quando i maggiori matematici italiani tra cui gli stessi fondatori degli Annali, oltre a Cremona, Casorati, Beltrami e altri ancora, pubblicarono le loro ricerche più originali sulla nuova rivista con la certezza di renderle note presso gli ambienti accademici più accreditati. Gli importanti lavori di Brioschi sulla teoria degli invarianti delle forme binarie, che seguivano e spesso completavano le pionieristiche ricerche degli inglesi Cayley e Sylvester sull’argomento, così come i suoi studi relativi alla teoria delle funzioni ellittiche e alle equazioni modulari – sulla scia delle idee di Jacobi e Weierstrass – che lo avrebbero condotto nel 1882 alle formule risolutive delle equazioni di 6° grado mediante le funzioni iperellittiche, furono per la maggior parte pubblicati sugli Annali di Matematica contribuendo a valorizzare la rivista e a diffonderla a livello internazionale.
Brioschi fu inoltre uno dei protagonisti di un’importante e controversa riforma della scuola secondaria, firmata dal ministro Coppino (1867) e che vedeva Cremona coinvolto come membro di una speciale commissione incaricata di redigere i nuovi programmi scolastici. Tale riforma imponeva, tra l’altro, l’adozione degli Elementi di Euclide come manuale di testo per la scuola secondaria. Come appare dalle lettere di Cremona e di Genocchi a Betti e da alcune lettere di Beltrami al matematico francese Jules Hoüel (1823-1886), la nuova edizione degli Elementi fu voluta soprattutto da Cremona anche se altri matematici, tra cui Beltrami, ne appoggiarono con forza l’iniziativa. Furono Brioschi e Betti a assolvere il difficile compito di elaborare una nuova edizione del libro di Euclide a uso delle scuole secondarie, da allora usualmente denominata il “Betti-Brioschi”. La polemica sull’adozione del testo scolastico fu assai aspra e coinvolse matematici di tutta Europa (Hirst, Hoüel, Rubini, Wilson, oltre ai già citati Beltrami, Betti, Brioschi e Cremona).
Nel 1863, insime all’ingegnere Giuseppe Colombo (1836-1921), che era stato suo allievo, fu il fondatore del Politecnico di Milano, destinato alla formazione dei tecnic di cui l’industria italiana aveva bisogno per adeguarsi ai livelli europei.  Del Politecnico Brioschi fu direttore fino alla morte, insegnandovi anche l’Idraulica.
Questa attività organizzatrice non può essere disgiunta dalla concezione politica di Brioschi che si può considerare, tra i matematici, il più organico rappresentante della borghesia lombarda. Ammiratore, fino al '50 di Mazzini, e poi moderato e cavourriano, frequentatore del salotto della contessa Maffei con Manzoni, Grossi, Cattaneo e il pittore Francesco Hayez (1791-1882), Brioschi prese pienamente parte al Risorgimento. Dopo l'Unità si legò agli ambienti politici della destra storica, soprattutto a Marco Minghetti (1818-1886) ed all'economista Luigi Luzzatti (1841-1927) e rivestì un ruolo importante negli sforzi riorganizzativi della ricerca scientifica italiana. Negli anni 1861-62 fu Segretario Generale (cioè Sottosegretario) della Pubblica Istruzione mentre era ministro il fisico Carlo Matteucci (1811-1868), carica che abbandonò anche per dedicarsi pienamente alla organizzazione del Politecnico.
Triumviro con Cadorna e Sella alla presa di Roma nel 1870, organizzatore delle ferrovie, del Catasto Italiano e liberista convinto, si spostò successivamente su posizioni protezionistiche, seguendo anche in questo gli umori della sua classe. È certo che per tutti gli scienziati italiani (e non soltanto i matematici) l'epoca dei ministeri Matteucci – Sella – Brioschi, fu un po’ l'epoca d'oro, guardata poi sempre con nostalgia. Ed in effetti il decennio 1860-'70 fu un'epoca carica di speranze, di spirito di organizzazione, di risultati: proporzionalmente tra le meno avare in fatto di stanziamenti per la ricerca. Come hanno scritto Brigaglia e Masotto, nel loro bel libro sul Circolo matematico di Palermo [Bari, Dedalo, 1982, p. 35], “questo decennio è, in fin dei conti, l'unico periodo di reale proiezione europea dell'Italia laica e positivista uscita dal risorgimento”.
Al Politecnico di Brioschi insegnarono Casorati e, in seguito (1866) anche Cremona.
Cremona, considerato il fondatore della scuola di geometria algebrica italiana, è anch’egli un altro dei nostri matematici ad aver partecipato attivamente e con successo alla vita politica del Paese. Nel 1848 aveva partecipato, volontario come sappiamo, alla guerra d’indipendenza e combattuto per oltre un anno nell’eroica difesa di Venezia. Dopo l’Unità, ricoprì incarichi politici di rilievo: nel 1879 fu nominato senatore del Regno, fu anche vice presidente del Senato e, nel 1898 – sebbene per un solo mese – Ministro della Pubblica Istruzione. Allievo di Brioschi e del caposcuola Bordoni, Cremona si era laureato a Pavia nel 1853, rimanendovi con diversi incarichi fino al 1856. Dopo un periodo di insegnamento nelle scuole superiori, durante il quale mantenne i contatti con Pavia, era stato nominato nel 1860 professore di Geometria superiore all’Università di Bologna; insegnamento che fu poi costretto a cambiare, nel 1863, per soppressione della cattedra, con quello di Geometria descrittiva. Un provvedimento questo che turbò non poco Cremona, che ebbe rapporti assai tesi con il Reggente dell’Università di Bologna, Antonio Montanari, tanto da desiderare il trasferimento in un’altra sede. Per sua fortuna, all’inizio del 1867, Brioschi lo aveva chiamato all’Istituto Tecnico Superiore di Milano, per insegnarvi la “Statica grafica”.
Partecipe anh’egli del clima culturale dell’Italia di metà Ottocento, il ruolo politico di Cremona non diminuì affatto quello prettamente scientifico. Il suo spirito di ricerca, scrivono Brigaglia e Masotto, si distingueva nettamente dagli altri matematici della sua generazione: tanto gli altri erano stati eclettici e poliedrici, tanto rigidamente purista era il programma che egli enunciò nella sua opera forse più famosa, la “Introduzione ad una teoria delle curve piane” (1862) e precisò nei “Preliminari di una teoria geometrica delle superfici”  (1866).
Sotto l'influenza assai forte delle idee elaborate in Francia da Poncelet (1788-1867) e sviluppate soprattutto da Chasles (1793-1880) e, in forme diverse, in Germania da Möbius (1790-1869), Steiner (1790-1863) e successivamente da Clebsh (1833-1872), il programma di Cremona può sintetizzarsi in poche parole: «liberare la geometria dall'influenza dell'analisi». Come egli stesso sottolineò rivolgendosi allo Chasles: «La mia debolezza proviene soprattutto dalla mia educazione esclusivamente algebrica, e se i miei occhi si sono aperti al sole della geometria pura, io devo tutta la mia riconoscenza a Voi, è il vostro Aperçu, è il vostro trattato di geometria superiore che io benedirò sempre!».
Un programma non tanto isolazionista e superato come può sembrare all'apparenza. Se è vero che il programma purista non ebbe un seguito diretto, la spinta fecondissima degli studi di Cremona ebbe il merito grandissimo di spingere ad uno studio che separasse accuratamente le proprietà geometriche da quelle analitiche, ponendosi nel solco di quel processo che, in fin dei conti ed anche contro gli intendimenti di alcuni promotori, muoveva nella direzione dei processi di assiomatizzazione in matematica, che, sotto un certo aspetto, non è altro che un'attenta e rigorosa separazione dello studio delle conseguenze relative ad un certo numero ristretto di proprietà; che poi questa separazione porti a nuove e inaspettate possibilità di unificazioni delle basi teoriche di discipline diverse non deve stupire: è proprio quanto accadde alle teorie elaborate da Cremona.
Dalle sue opere emana il fascino raro, tipico della geometria sintetica, della sua capacità di unire il rigore logico all'intuizione sensibile, un fascino che si esercitò in modo indelebile sulla nuova generazione di matematici italiani (tra cui il nostro Guccia), che anche quando non ne seguirono i metodi, calcarono profondamente le orme del maestro. Il ruolo innovativo di Cremona nel contesto della cultura italiana si può vedere nella sua prolusione al corso di geometria superiore del novembre 1860:

Le scienze esatte, per la prodigiosa attività di geometri stranieri ed italiani di altissimo ingegno, tale incremento s’ebbero ne’ dodici lustri di questo secolo, quale non s'era mai visto in sì breve giro di tempo. [...] La vastità o la recondita profondità di alcune fra le nuove dottrine richiedeva imperiosamente ch'esse venissero bandite da apposite cattedre nelle università o in altri istituti superiori. Ed anche a questo bisogno della crescente civiltà si soddisfece in Francia, in Germania, in Inghilterra, non però in Italia. Le nostre scuole per verità ebbero sempre parecchi e valenti professori che partecipando all'odierno progresso scientifico perfezionarono i metodi di ricerca e di dimostrazione; ma i retrivi ordinamenti scolastici, la brevità del tempo concesso alle più importanti materie e il picciol numero di cattedre impedirono che si allargasse il campo dell'istruzione universitaria, che si atterrassero le colonne erculee de' programmi ufficiali. Che se la scienza cammina pur sempre avanti senza curarsi di pastoie governative, non era consentito a que' nostri docenti, i quali nel silenzio de' domestici studi seppero tenere dietro al maestoso procedere delle matematiche, di far penetrare la nuova luce nelle aule del pubblico insegnamento. Da molto tempo nelle università d'Italia non si poterono insegnare fuor che i primi rudimenti delle scienze esatte; ed i buoni ingegni ne uscivano questo solo sapendo, esistere vaste e maravigliose dottrine di cui era loro noto appena l'alfabeto. [...]. Ognun vede quanto fosse indecoroso che l'istruzione, data dallo stato, non fosse che una piccola parte di quella reclamata dalle odierne condizioni di civiltà; ma a ciò non potevano provvedere né un governo straniero né governi mancipii [servi] dello straniero, pei quali l'ignoranza pubblica era arte potentissima di regno. Questo era un compito serbato al governo nazionale [...]. Ma in quale scuola si adombrava anche da lungi questa vastissima scienza che chiamasi geometria superiore? Oh diciamolo francamente: in nessuna. La moderna geometria, che sotto varie forme si insegna da molti anni in Francia, in Germania, in Inghilterra, è per le nostre università un ospite affatto nuovo; [...]

Ciò per cui Cremona mantiene giustamente a tutt'oggi la sua grande fama, è lo studio delle trasformazioni biunivoche tra due piani, in particolare delle trasformazioni birazionali (dette, appunto, cremoniane). Questo studio durò l0 anni, dalle note del 1863 Sulle trasformazioni geometriche delle figure piane a quella del 1872 sulle trasformazioni birazionali, apportando un contributo decisivo alla rivoluzione concettuale che Felix Klein (1849-1925) andava operando in Germania dei metodi geometrici. Le proprietà geometriche sono quelle invarianti per determinate trasformazioni (come ad es. l'area è invariante per rotazioni sul piano euclideo o il numero di diametri di una conica per trasformazioni affini). Le trasformazioni birazionali saranno proprio quelle che determineranno attraverso lo studio dei loro invarianti, le proprietà della geometria algebrica. Ciò rende possibile lo studio sistematico e classificatorio delle figure geometriche attraverso i loro invarianti e quindi le loro proprietà intrinseche (e quando lo si voglia più legate alla nostra intuizione spaziale), che il metodo delle coordinate aveva non poco offuscato. Fu proprio l'inserimento successivo nell'alveo del ben più ampio «programma di Erlangen» di Klein a dare straordinaria vitalità alle concezioni cremoniane. Stranamente il 1872 fu contemporaneamente l'anno dell'ultima pubblicazione – incompiuta – di Cremona sull'argomento e l'anno della esposizione del programma di Erlangen. Veramente, come notò Castelnuovo, «si chiudeva un epoca per cominciarne una nuova».
Come si è detto, è dopo il 1872 che Cremona esplica il grosso della sua attività come organizzatore della politica culturale. Chiamato a Roma, nel 1873, si occupò di riordinare, o anzi di fondare la scuola degli ingegneri. Volle dare vitalità a un corpo inerte, quale si era ereditato, e prima sua cura fu l'unirlo in un sol luogo colla sezione matematica della Facoltà di scienze. Scopo di questa unione fu quello di accostare gli studî d'ingegneria al focolare della scienza pura, e di conservare quella benefica influenza dell'università scientifica che è necessaria, come egli diceva, perché l’istruzione tecnica non degeneri nell'empirismo. Come si vede, dunque, la posizione di Cremona non era lontanada quella di Brioschi sul piano dei rapporti tra scienza pura e scienza applicata. E tuttavia, scientificamente, i due producono in modo diverso. In Brioschi la produzione applicata e quella pura si accompagnano armonicamente, Cremona invece è, insieme a Casorati, l'unico dei matematici risorgimentali a non produrre in settori diversi dalla matematica pura. Ciò fa di Cremona un matematico più «moderno» rispetto a Brioschi. Il passo successivo sarà rappresentato dal pieno disinteresse del matematico «puro» rispetto alle applicazioni dei suoi studi (ad esempio Peano). Questo è un processo che avviene in tutto il mondo capitalisticamente avanzato: la ricomposizione tra i vari frammenti della cu1tura, gli anelli che congiungono le teorie matematiche più astratte alle applicazioni più concrete non avverrà più, a partire dai primi decenni del Novecento, a livello dei singoli ma a quello delle comunità.
Ma, come accadde già per Brioschi, anche Cremona si allontanò per sempre da Pavia; sicché il contributo di entrambi allo sviluppo della matematica pavese è limitato, almeno scientificamente, ai primissimi anni della loro carriera e, in particolare, si manifestò nella formazione di alcuni brillanti giovani matematici, che sarebbero poi divenuti i protagonisti di quella che è stata definita la «decade aurea» (dal 1880 al 1890) della matematica pavese: Casorati, Beltrami e Eugenio Bertini (1846-1933).
Casorati si era laureato a Pavia nel 1856 divenendo subito assistente di Brioschi di cui, insieme a Bordoni, era stato allievo. Dopo aver insegnato come supplente, dal 1857 al 1859, nei corsi topografia, idrometria e geodesia, era stato nominato professore straordinario prima (1859) e ordinario poi (1862) di Introduzione al Calcolo sublime, per passare nel 1863 (come successore di Mainardi) sulla cattedra di Calcolo differenziale e integrale, incarico che mantenne fino al 1878-79. Dal seguente anno accademico insegnò, fino alla morte, Analisi infinitesimale come professore ordinario, tenendo per incarico anche altri insegnamenti (Geodesia teoretica e Analisi superiore). Casorati era stato anche incaricato per sette anni accademici (dal 1868 al 1875), dell’insegnamento di Geodesia presso l’Istituto Tecnico Superiore di Milano.
Nel 1858 Casorati aveva partecipato con Betti e Brioschi, dopo la rinuncia di Genocchi, al celebre e proficuo viaggio in Francia e Germania dove aveva conosciuto personalmente, tra gli altri, Bonnet, Richard Dedekind (1831-1916), Peter Gustav Lejeune Dirichlet (1805-1859), Charles Hermite (1822-1901), Jean Victor Poncelet (1788-1867), Bernhard Riemann (1826-1866) e Karl Weierstrass (1815-1897), alcuni dei quali ne avrebbero profondamente influenzato le future ricerche. Aveva incontrato nuovamente Weierstrass (e altri matematici tedeschi) in un successivo viaggio in Germania nell’ottobre del 1864, mentre altri incontri con vari matematici europei li ebbe all’Università di Pavia, ma anche durante le vacanze sul lago di Como o in stazioni climatiche delle Alpi italiane e svizzere, e a ulteriore testimonianza della sua dimensione veramente internazionale vi sono le carte conservate nel suo Archivio, tra cui figurano varie centinaia tra lettere di matematici stranieri e minute di lettere indirizzate da Casorati all’estero. Alcune lettere del suo Archivio mostrano come Casorati avesse programmato un terzo viaggio per recarsi a Londra nel 1870 insieme agli altri matematici “pavesi” (Beltrami, Brioschi e Cremona), viaggio che però per vari motivi non riuscì a effettuare.
Le ricerche di Casorati riguardano principalmente l’analisi, in particolare lo studio delle equazioni differenziali e la teoria delle funzioni di variabili complesse, argomento su cui pubblicò una celebre monografia (Teoria delle funzioni di variabili complesse, Pavia, Fusi, 1868) dove viene dimostrato per la prima volta il “teorema di Casorati-Weierstrass” sul comportamento di una funzione monodroma nell’intorno di un punto singolare essenziale. Questo teorema, che fu ritrovato da Weierstrass in forma più raffinata nel 1876, dette il primo spunto a un celebre teorema di Picard uno sull’analisi complessa.
Ulteriori ricerche di Casorati sono dedicate allo studio delle funzioni multiperiodiche e alla teoria degli integrali abeliani nello spirito delle idee di Riemann; era intenzione di Casorati pubblicare queste indagini in un secondo volume della Teorica, che tuttavia non fu mai dato alle stampe, quasi certamente – ma non solo – per la prematura scomparsa dell’autore (a soli 54 anni).
La Teoricaaveva anche lo scopo di far conoscere in Italia la “nuova” analisi complessa che risentiva delle influenze della matematica tedesca, soprattutto dell’opera riemanniana, con la quale Casorati era venuto a contatto nei suoi viaggi in Germania. Casorati fu, insieme a Betti, uno dei più convinti sostenitori dei metodi di Riemann, soprattutto nei campi dell’analisi complessa e della teoria delle funzioni abeliane. Come molti studiosi dell’Italia post-unitaria, anche Casorati si dedicò con passione a insegnare e a divulgare le nuove teorie con lo scopo di condurre la matematica italiana al livello della matematica europea più avanzata. «Quanto elevata ed efficace fosse l’opera del Casorati come insegnante – scriveva Loria  nella sua commemorazione del 1891 – lo dicono i numerosi discepoli che Egli per tanti anni e con sì costante sollecitudine ha eccitati e guidati nella ricerca del vero [...] Sotto la veste dell’insegnante, quanto e forse più che nell’attitudine da Lui assunta come scienziato, il Casorati si manifestò uno dei più strenui campioni di quell’indirizzo degli studi analitici odierni, che trova in Riemann il suo più illustre rappresentante».
Casorati era coetaneo di Beltrami e suo compagno di studi all’Università di Pavia, dove Beltrami si era iscritto nel 1853. Tuttavia, già nel febbraio 1855, Beltrami era stato allontanato dal Collegio Ghislieri in cui risiedeva, perché accusato di aver promosso disordini contro l’Abate Leonardi, Direttore del Collegio. Ben presto le ristrettezze economiche della famiglia lo avevano costretto ad abbandonare gli studi e a trasferirsi, nel novembre 1856, a Verona dove rimase fino alla liberazione della Lombardia nel 1859. Tornò allora a Milano, dove riprese gli studi con «il suo antico maestro» Brioschi e con Cremona, allora professore liceale. Benché non si fosse mai laureato, Beltrami emerse ben presto nel panorama degli studi matematici dell’Italia post-unitaria e pubblicò nel 1861 sugli Annali di Tortolini due articoli che seguivano alcune ricerche geometriche di Cremona. Quest’ultimo fece pressione su Brioschi, allora segretario generale della Pubblica Istruzione, affinché Beltrami fosse nominato (per decreto, nell’ottobre 1862) professore straordinario di Geometria analitica e proiettiva all’Università di Bologna. Era stato Casorati a fungere da prezioso tramite tra Cremona e Brioschi per questa nomina, come si evince dalle numerose lettere tra Cremona e Casorati, pubblicate recentemente [A. Gabba, Un altro carteggio di Felice Casorati: Le lettere scambiate con Eugenio Beltrami, in “Rendiconti dell’Istituto Lombardo”, a 136-137 (2002-2003), pp. 7-48].
Beltrami si trasferisce poi (nel 1863) da Bologna a Pisa sulla cattedra di Geodesia, in seguito a malumori e dissidi con il «maledetto Reggente» dell’Ateneo bolognese, come lo aveva apostrofato Cremona in una lettera a Casorati del 16 luglio 1865. A Pisa Beltrami ha l’opportunità di frequentare Riemann che, per motivi di salute, trascorreva, su invito di Betti, un soggiorno di studio in quell’Università (dal 1863 al 1865). Successivamente, nel 1866, Beltrami si sposta nuovamente a Bologna per problemi di saluti della madre e nel 1873 a Roma sulla cattedra di Meccanica razionale «a crescere il lustro della rinnovata Università» come scrive Loria. Tuttavia, pochi anni dopo, «ragioni di varia natura» lo convincono a lasciare Roma per Pavia (essendo fallito un suo precedente progetto di trasferirsi all’Università di Padova), dove rimane fino al 1891 per poi tornare definitivamente a Roma. Vale la pena di soffermarsi su quelle che Loria ha definito le «ragioni di varia natura», in seguito alle quali Beltrami abbandona il prestigioso incarico romano, minando la sua lunga e profonda amicizia con Cremona. Quest’ultimo scriveva a tale proposito a Betti il 7 settembre 1874: «Quanto a Beltrami, egli non rispose più alla mia lettera del 13 agosto, colla quale rispondendo ai suoi argomenti, veri sofismi, per giustificare il suo progetto di passare a Padova, mettevo a nudo che niente giustificava la sua partenza da Roma, dopo un solo anno di dimora, nessuna circostanza imprevedibile essendo sorta, che si potesse da lui invocare. Questo suo silenzio mi è di cattivo augurio. Può egli essersi offeso perché l’amico gli parlò con linguaggio della verità? Ah, maledette le donne, esse portano la discordia da per tutto!». È evidente che Cremona si riferisce, con il termine generico «donne», alla moglie di Beltrami, Amalia Pedrocchi, più volte responsabile dei trasferimenti del marito. In verità, nelle sue lettere a Hoüel e a Betti, Beltrami avanzava motivazioni di vario genere: questioni di carattere economico, dissapori nati tra i suoi due maestri, Brioschi e Cremona, relativi alla fondazione della Scuola degli Ingegneri di Roma, tensioni anche nei confronti di Giuseppe Battaglini (1826-1894) che si lamentava del corso di Meccanica applicata e voleva passare a un insegnamento superiore, ragioni di salute sua e della moglie dovute alle frequenti «febbri romane» (o malariche). Infine, Beltrami ottiene l’agognato trasferimento (non a Padova, ma a Pavia) nel 1876; e già il 30 agosto 1879 comunicava a Betti di aver trascorso un periodo di vacanza in montagna dove si trovavano altri 7 matematici, tra cui Cremona. Come appare chiaro anche da alcune lettere successive, i rapporti di amicizia tra Beltrami e Cremona sembravano ricuciti e gli antichi dissapori dimenticati.
Il lungo periodo, dal 1876 al 1891, trascorso da Beltrami all’Università di Pavia fu bruscamente interrotto dalla morte di Casorati (1890), e Beltrami decise di far ritorno all’Università di Roma. A Pavia, Beltrami fu chiamato sulla cattedra di Fisica matematica, in quanto il corso di Meccanica razionale era già stato affidato al suo collega Carlo Formenti (1814-1918). Beltrami era allora nel pieno della sua attività scientifica e rappresentava, insieme a Betti, il punto di riferimento per la fisica matematica italiana; Volterra definì Betti e Beltrami «i due campioni della fisica matematica in Italia».
I lavori sulla geometria non euclidea per i quali è oggi noto il nome di Beltrami, il Saggio di interpretazione della geometria non euclidea e la Teorica fondamentale degli spazii di curvatura costante, erano apparsi nel 1868-69, quando già Beltrami stava cominciando a indirizzare i propri interessi alla Fisica matematica. Nel Saggio viene descritto il celebre “modello di Beltrami”: si tratta della prima rappresentazione (valida solo localmente) del piano iperbolico nello spazio ordinario. Il Saggio e la Teorica, dove vengono dimostrati alcuni importanti asserti riemanniani, furono subito tradotti e pubblicati in francese, dando un forte impulso alla diffusione della geometria non euclidea in tutta Europa. Beltrami si fece paladino della nuova geometria ribadendone continuamente la sua “naturale” continuità con il passato a dispetto delle apparenze, nella sua corrispondenza privata. Una continuità dovuta soprattutto allo strumento da lui usato, la geometria differenziale, che aveva le sue origini nei lavori di Gauss appresi da Beltrami alla scuola di Bordoni, Codazzi e Mainardi, fin dai suoi anni di studente all’Università di Pavia. Erano state le sue indagini sulla teoria delle superfici, sviluppate con i metodi geometrico-differenziali, che gli avevano permesso di trovare tanti e tali risultati di geometria non euclidea, e non faceva eccezione neppure il suo modello del piano iperbolico.
Volendo suddividere, seppure in maniera grossolana, le ricerche sviluppate da Beltrami durante il suo periodo pavese, si può affermare che in un primo periodo (negli anni ’70 dell’Ottocento) Beltrami si dedicò alla teoria del potenziale per poi passare (a partire dal 1882) alla teoria dell’elasticità; tuttavia, egli pubblicò numerosi lavori anche in altri settori della fisica matematica (come la meccanica razionale, l’elettricità e il magnetismo).
Nonostante la varietà dei suoi studi, è comunque possibile individuare nell’opera di Beltrami un percorso unitario. Vi era infatti un intento comune a molti studiosi dell’Ottocento volto a spiegare la propagazione dei fenomeni nello spazio mediante le deformazioni di un etere che riempiva l’intero universo. Si immaginava che un etere elastico, omogeneo e isotropo pervadesse l’intero spazio e fosse il responsabile della trasmissione delle forze. Beltrami andava addirittura oltre: egli infatti non presupponeva che lo spazio, in cui si propagavano i fenomeni fisici, fosse necessariamente euclideo. Del resto, Beltrami era un profondo conoscitore delle geometrie non euclidee e ricorrere ai fenomeni fisici per rivelare la vera natura dello spazio doveva apparirgli del tutto naturale, così come l’idea di estendere alcuni risultati (o addirittura teorie) della fisica matematica validi in ambito euclideo agli spazi non euclidei.
Dopo il 1880, i lavori sulla teoria del potenziale si alternano con quelli dedicati alla teoria matematica dell’elasticità, altro argomento cruciale della fisica matematica dell’epoca, cui Betti aveva dedicato una lunga serie di articoli (che tutti insieme costituiscono un vero e proprio trattato) pubblicati sul Nuovo Cimento nel 1872. In un articolo del 1882, Sulle equazioni generali dell’elasticità, Beltrami determina le espressioni delle equazioni dell’equilibrio elastico in uno spazio con curvatura costante, che dipendono in modo assai «semplice» dalla natura dello spazio. Tra il 1884 e il 1886 pubblica tre lunghi articoli relativi alla teoria elettromagnetica di Maxwell esposta nel celebre A Treatise on Electricity and Magnetism (1873), che prendono in considerazione il sistema degli sforzi dell’etere. Ancora dedicato all’analisi di questi problemi è l’articolo Sull’interpretazione meccanica delle formole di Maxwell (1886) dove Beltrami determina le deformazioni (e dunque gli spostamenti) del mezzo supposto elastico, omogeneo e isotropo che, in uno spazio euclideo, danno luogo al sistema di formule dedotto da Maxwell. In questo contesto, trova le condizioni necessarie perché sei funzioni date rappresentino un’effettiva deformazione (congruente) del mezzo; da queste relazioni, Beltrami partirà per determinare, in un articolo del 1892, nel caso di un corpo isotropo le equazioni dell’equilibrio elastico in termini di sforzi, oggi note come “equazioni di Beltrami-Mitchell”.
Come collega di Beltrami e Casorati nella «decade aurea» (1880-1890) della matematica a Pavia abbiamo citato Bertini. Bertini era stato il primo allievo di Cremona all’Università di Bologna e, come il maestro, era stato un entusiasta patriota: nel 1866 aveva interrotto gli studi, iniziati tre anni prima, per combattere nella terza guerra d’indipendenza contro l’Austria, una decisione appoggiata fortemente da Cremona. Al suo ritorno, Bertini aveva lasciato Bologna per continuare gli studi con Betti e Ulisse Dini (1845-1918) a Pisa, dove si era laureato nel 1867. Negli anni successivi aveva seguito le lezioni di Cremona, Brioschi e Casorati all’Istituto Tecnico Superiore di Milano. Dopo aver insegnato nelle scuole superiori prima a Milano e poi a Roma, era stato nominato professore di Geometria all’Università di Pisa nel 1875 e da qui si era spostato all’Università di Pavia dove trascorse un lungo periodo, dal 1880 al 1892, forse il più fulgido della sua carriera scientifica. Dopo la morte di Casorati e il trasferimento a Roma di Beltrami, anche Bertini lasciò Pavia e si spostò all’Università di Pisa dove rimase fino al pensionamento.
Con Bertini la geometria algebrica ebbe a Pavia un protagonista di altissimo livello: egli estese e completò i lavori di Cremona studiando gli invarianti geometrici rispetto alle trasformazioni cremoniane e usò la sua teoria per lo studio delle singolarità delle curve. In questo contesto, Bertini dimostrò quelli che Kleiman ha chiamato «i due teoremi fondamentali», ancora ampiamente usati nella moderna geometria algebrica. Questi risultati di Bertini riguardano, il primo, i punti singolari su un’ipersuperficie di una varietà algebrica e, il secondo, la riducibilità dei sistemi lineari. Ponendo l’attenzione sulle proprietà invariantive nelle trasformazioni cremoniane, Bertini spostò il punto di vista dalla geometria proiettiva – ancora predominante nell’opera di Cremona – alla geometria algebrica, che stava nascendo proprio in quegli anni anche grazie ai suoi preziosi contributi.
Casorati per l’analisi, Beltrami per la fisica matematica e Bertini per la geometria fecero di Pavia un importante punto di riferimento per la matematica italiana. Ma con Bertini siamo già entrati nel secondo grande centro di incubazione della nuova generazione di matematici, l’Università di Pisa, cui è dedicato il paragrafo successivo.

 

2. La scuola di Pisa

Al centro della scuola matematica di Pisa c’è essenzialmente Enrico Betti, cui si aggiungerà in seguito Ulisse Dini e successivamente Luigi Bianchi e EugenioBertini.
Enrico Betti aveva iniziato la sua carriera scientifica sotto la guida di Ottaviano Fabrizio Mossotti, che lo aveva indirizzato verso lo studio dell'opera di Galois. Gli studi di Betti furono i primi di un qualche rilievo sulla teoria di Galois delle equazioni algebriche, anche se non giunsero a c rificare completamente gli aspetti più complessi della teoria gruppi di sostituzioni. Dopo un primo articolo del 1851, Betti continuerà a lavorare e a pubblicare sistematicamente i suoi risultati in questo settore fino al 1859. 1
Anche da questo punto di vista, il viaggio in Germania segnò una svolta nella sua produzione scientifica. Incoraggiato e influenzato da Riemann, al suo ritorno a Pisa, dove era stato nominato professore nel 1857, Betti cambierà i suoi interessi di ricerca, indirizzandosi verso le funzioni di variabile complessa, la topologia e soprattutto la fisica matematica2.
In effetti, la situazione di Pisa era piuttosto favorevole alla formazione di una scuola matematica di alto livello. Nel 1846 era stata infatti riaperta la “Normale”, com’è usualmente chiamata la “Scuola Normale Superiore”. Era stata fondata il 18 ottobre 1810 (ma è operativa dal 1813), come “succursale” della Scuola Normale di Parigi per la preparazione dei futuri insegnanti nelle scuole del napoleonico Regno d'Italia. In quanto tale, la Scuola Normale gode degli stessi precedenti eroici della Scuola Normale napoleonica che riprendeva, trasformandola, la Scuola Normale centrale di Parigi, fondata con un decreto della Convenzione del 1793 e vissuta per alcuni mesi nel 1794. Per tale via si potrebbe risalire a Roberspierre ed agli ideali egualitari di Babeuf, con la sua appassionata rivendicazione del diritto all'istruzione per tutti i cittadini.

L'istituto pisano ebbe, però, vita brevissima: i disastri militari di Napoleone fecero rientrare nel 1814 i Lorena in Toscana e la “Normale” fu soppressa assieme alle altre istituzioni napoleoniche. Questa prima fase della vita della “Normale” non potè dunque avere grande influenza sullo sviluppo della cultura italiana; né influenza alcuna, oltre l'ambito strettamente regionale, potè avere la sua seconda fase (che va dal 1846 all'Unità d'Italia), iniziata quando il granduca di Toscana ristabiliva l'istituto napoleonico per la formazione degli insegnanti delle scuole, allora riformate, del granducato. La Scuola doveva essere mantenuta quasi totalmente a spese dell'ordine equestre di S. Stefano, che concedeva a suo uso lo storico palazzo che ancora la ospita.

Palazzo della Carovana

La sede della “Normale” in piazza dei Cavalieri


Formatosi il Regno d'Italia, il ministro Matteucci, nel 1862, realizzava il progetto De Sanctis di riforma della scuola granducale: veniva aumentato il numero dei convittori e degli aggregati (i primi per la classe di lettere ed i secondi per quella di scienze) e fu aperto l'ingresso a tutti gli italiani. La “Normale” compiva così il salto verso una dimensione nazionale. Gli uomini eminenti cui fu affidata la direzione, la scelta dei professori interni, l'alto valore degli insegnanti dell'Università fecero sì che la “Normale”, pur con mezzi economici talvolta limitati, diventasse presto uno dei centri più importanti del progresso degli studi letterari e scientifici in Italia. A differenza delle Università, la “Normale” era un ambiente fortemente concentrato, in cui confluivano a seguito di un concorso piuttosto selettivo giovani studenti da tutta la Toscana prima, e poi da tutta l'Italia. Posti in un contesto stimolante e competitivo, e in contatto continuo con i loro professori, gli studenti potevano dare il meglio di sé e trarre il massimo profitto dai loro studi.
I risultati non si fecero attendere: dalla Scuola Normale uscirono in breve tempo un numero considerevole di matematici di ottimo livello, tutti influenzati in un modo o nell'altro dalle ricerche di Betti e dei suoi collaboratori, ma allo stesso tempo educati a non seguire pedissequamente il cammino tracciato, ma a confrontarsi con la comunità matematica internazionale, traendo da essa stimoli e indirizzi di ricerca. Questa costante apertura fu uno dei princìpi ispiratori di Betti. Come ci ricorda Luigi Bianchi (1856-1928) nella sua commemorazione di Ulisse Dini, quest'ultimo aveva rivolto la sua attenzione, stimolato anche dalle ricerche Weierstrass e della sua scuola, alla mancanza di rigore di molte dimostrazioni, e si era dedicato “all'ardua impresa di riedificare, sopra solide fondamenta, tutto l'edificio dell'analisi. (...) Convien dire che queste ricerche avevano riscosso, fin dal principio, il pieno consenso e il plauso del Betti; e non è questo piccolo titolo di merito pel maestro, ove si pensi che i nuovi studi venivano a sconvolgere, in gran parte, l'edificio che egli, come quasi tutti i matematici del su tempo, aveva finora ritenuto perfettamente sicuro in tutte le sue parti”. A coronamento di questi studi, iniziati nei primi anni ’70, Dini pubblica nel 1878 i notissimi e famosissimi Fondamenti per la teorica delle funzioni di variabili reali (Nistri, Pisa), dove i principali concetti dell’Analisi, a partire da quello di numero reale che solo tre anni prima aveva visto la prima sistemazione rigorosa per opera di Dedekind, Cantor e di Meray, vengono esposti col massimo rigore e la più grande generalità. Il testo del Dini resterà un classico per molti anni, e sarà tradotto in tedesco nel 1892, anche se l’idea  risale all’epoca della sua pubblicazione per iniziativa dello stesso Cantor. Ecco quello che scrive Cantor in una sua lettera a Dedekind del 29 dicembre 1878 (da Halle)3: “Lei deve aver senza dubbio aver ricevuto il libro: «Fondamenti per la teorica delle funzioni di variabili reali di Ulisse Dini, Pisa 1878». È un'opera che mi sembra redatta da qualcuno che conosce l'argomento ed è molto abile; per l'introduzione dei numeri si serve del suo metodo”. Cantor ritorna poi sull’argomento in un’altra lettera a Dedekind del 18 gennaio 1880, nella quale leggiamo: “L'occasione per la quale chiedo oggi il suo consiglio riguarda il libro di Dini “Fondamenti”. Sebbene sia un po' lungo, mi è subito parso appena è uscito che fosse desiderabile, per non dire indispensabile, tradurlo in tedesco; io infatti, pur avendo avuto già dieci anni fa l'idea di scrivere un lavoro come questo e avendo già pronto tutto il materiale indispensabile, non posso poi passare all'esecuzione perché me lo impediscono l'insegnamento e molti altri lavori, e passerà molto tempo prima che possa dedicarmi a un'elaborazione così dettagliata. Ma tutte o quasi le volte che faccio lezione ai miei uditori mi rendo conto di quanto sia necessario un lavoro come quello di Dini.
Io però non posso sobbarcarmi a questa traduzione da solo, soprattutto perché non conosco molto bene l'italiano. Sarei però in grado di aiutare qualcun altro e di curare la stampa con lui.
Per il resto ho già conquistato a questa idea un editore importante un anno fa4.
Mi farebbe piacere sentire che cosa ne pensa lei; senza contare che forse lei è anche in grado di propormi qualcuno adatto a questo scopo, cosa di cui le sarei molto grato”.

Nel giro di venti anni, dal 1864 al 1884, si laurearono a Pisa, alla Scuola Normale o all'Università, una serie di matematici che avrebbero in breve tempo trasformato radicalmente la scuola matematica italiana, portandola al rango di una delle massime del continente. Il primo fu l’appena citato Ulisse Dini (1845-1918), che dopo la laurea nel 1864 e dopo un anno passato a Parigi, dove aveva studiato con Bertrand e Serret, nel 1866 venne nominato professore all'Università di Pisa. Del soggiorno del ventenne Dini a Parigi abbiamo le sue lettere a Betti, preziosa testimonianza dell’apprendistato di un matematico del neonato Stato italiano. Ecco, per esempio, la prima (datata: Parigi, 18 gennaio 1865):

“Ill.mo Signor Professore
Soltanto nella scorsa settimana mi presentai a M. Bertrand e a M. Bonnet. I medesimi mi accolsero nel modo il più gentile e mi si offersero per qualunque occorrenza; sono io perciò ora a ringraziarla di avermi dato Lei il mezzo di conoscere tali persone.
M. Bonnet studia adesso le superficie applicabili. Esso ha applicato l’equazione data dal Bour alla ricerca delle superficie applicabili su quelle di area minima; ma quantunque l’equazione si sia ridotta per quel caso a una forma più semplice, non si sa però ancora integrarla. Egli ha inteso con piacere che io abbia dato quella equazione pel caso generale, poiché, come mi diceva stamani, quella del Bour non si applica che per le superficie d’area minima. Gli ho portato stamani ciò che presentai al Concorso con qualche cosa che ho fatto qua, perché mi dica cià che vi ha di nuovo: dopo porterò il nuovo a Bertrand che mi ha detto di// presentarlo all’Accademia. M. Bertrand si occupa ora del nostro Galileo. Egli desidererebbe perciò di avere almeno il discorso che fu fatto l’anno scorso in Pisa nell’occasione del Suo Centenario; e siccome io gli ho promesso di procurarglielo sono perciò a pregarla di farmi sapere se fu stampato (cosa che credo che Ella saprà): in tal caso scriverò a qualcuno che me lo procuri.
Ho inteso da una lettera del Prof. Beltrami il suo consiglio. Vorrei poterlo accettare subito, ma come fare a andare in Germania, conoscendone poco o punto la lingua?
Le unisco qui il mio indirizzo che è: Paris. 12 Rue des Grés quartier de la Sorbonne, perché ella possa scrivermi, come restammo, sia per darmi le sue nuove o i suoi consigli che mi riesciranno sì le une che gli altri graditissimi, sia per incaricarmi di qualche cosa in cui di quà io possa servirla, il che// mi sarebbe pur gradito.
A Lezione non vi vado quasi mai perché concludo più studiando da me. Ora sono dietro a una maledetta equazione a derivate parziali, integrata la quale avrei un carattere delle superficie di cui uno dei sistemi di linee di curvatura è pure sistema di linee geodetiche. Spero di riescire a fare l’integrazione, poiché  sebbene l’equazione sia del 2° ordine, è però semplicissima. Se non altro tenterò col metodo della variazione delle costanti arbitrarie, poiché già si può dire di conoscere un integrale particolare nella superficie di rivoluzione.
Di giovani mandati dal Governo Italiano vi è un certo Vecchi che ha studiato a Parma e ha il posto di Bologna. Non so però che genere sia poiché anche dagli altri Italiani fu visto il primo giorno, e// non è stato più visto. Vi è poi Uzielli che si occupa di Chimica e Cristallografia5. Studia perciò le proprietà delle curve ottiche, tori etc. etc. Il medesimo mi ha pregato di farle i suoi saluti.
Quà io mi sono tovato benissimo. Soltanto nei primi giorni ho sentito un poco di nostalgia.
Inanto pregandola a passare i miei più distinti saluti anche agli altri miei Professori che avrà l’occasione di vedere, passo al piacere di segnarmi (...).”

Insieme a Betti, Dini sarà il motore dei successivi sviluppi della matematica a Pisa. Nel 1866 si laurea Ernesto Padova (1845-1896), che fu a sua volta maestro di Tullio Levi-Civita (1873-1941) a Padova, nel 1867 Eugenio Bertini (1846-1933), nel 1868 e 1869 rispettivamente Giulio Ascoli (1843-1896) e Cesare Arzelà (1847-1912).
Seguirono poi nel 1874 Salvatore Pincherle (1853-1936), che a Bologna, dove insegnerà dal 1881, fu a sua volta insieme ad Arzelà tra gli iniziatori di una fiorente scuola di analisi, nel 1875 Gregorio Ricci-Curbastro (1853-1925), maestro e poi collaboratore di Levi-Civita in una famosa Memoria del 1900 sul Calcolo differenziale assoluto, e fondatore insieme a lui e a Luigi Bianchi, che si era laureato nel 1877, della scuola italiana di geometria differenziale. Nel 1881 fu la volta di Carlo Somigliana (1860-1955), e nel 1882 di Vito Volterra (1860-1940), uno dei maggiori, se non il maggior matematico del primo secolo dello Stato unitario, che darà uno straordinario impulso all'Analisi e alla Fisica matematica.
Il caso di Volterra è sintomatico delle possibilità offerte da una istituzione come la Scuola Normale. Diplomato all'Istituto Tecnico di Firenze, le sue condizioni economiche gli avrebbero impedito di continuare gli studi se non avesse avuto la fortuna di incontrare il fisico Antonio Roiti (1843-1921), che era stato anch'egli studente di Betti a Pisa6, e che lo nominò “preparatore” all'Istituto di Fisica di Firenze, consentendogli così di partecipare al concorso per la Scuola Normale l'anno seguente.
Contemporaneamente a Volterra, si laureava Rodolfo Bettazzì (1861-1941), che fu tra i fondatori della Mathesis, la prima associazione italiana tra i matematici, e nel 1884 Luigi Berzolari (1863-1949), allievo di Bertini. Sempre nel 1884 si laurearono Cesare Burali Forti (1861-1931) e Mario Pieri (1860-1913), che più tardi parteciperanno alle ricerche logico-fondazionali di Peano. Ancora nel 1891 si laureava a Pisa Federigo Enriques (1871-1946), che completerà poi la sua formazione a Torino con C. Segre e a Roma con G. Castelnuovo, e successivamente anche Giuseppe Vitali (1875-1932) e Guido Fubini (1879-1943). Ai primi del ‘900 arrivano, infine, a Pisa Eugenio Elia Levi (1883-1917) e Mauro Picone (1885-1977).


Enrico Betti pdf Ulisse Dini pdf



3
. La matematica a Torino

Dei tre matematici che dirigevano de facto gli Annali di Matematica dal 1858, il solo Genocchi non aveva partecipato al “mitico” viaggio in Francia e Germania di quell’anno. Angelo Genocchi si era laureato in giurisprudenza a Piacenza nel 1838, e dopo aver esercitato la professione di avvocato era stato nominato nel 1845 professore di Istituzioni di diritto romano alla locale Università. I moti del 1848 e la successiva reazione determinarono una svolta nella sua vita: rifugiatosi a Torino, non volle rientrare a Piacenza neanche quando la politica moderata del governo austriaco glielo avrebbe permesso. A Torino, da autodidatta, comincia lo studio della matematica, interessandosi soprattutto alla Teoria dei numeri. Nel 1859 diviene professore prima di Algebra, poi di Calcolo infinitesimale. Anche se i suoi lavori contenevano spunti interessanti, non diede contributi importanti alle matematiche, ed è oggi ricordato soprattutto come maestro di Giuseppe Peano (1858-1932), che nel 1884 pubblica un trattato ispirato alle sue lezioni, corredato con importanti aggiunte [A. Genocchi, Calcolo differenziale e principii di calcolo integrale, pubblicato con aggiunte dal Dr. Giuseppe Peano, Bocca, Torino].
Spirito critico e assertore del rigore assoluto in matematica, Peano si distinse prima per importanti contributi di Analisi, dimostrando un teorema di esistenza per equazioni differenziali e scoprendo la curva che porta il suo nome, e che riempie tutto un quadrato, per rivolgersi poi alla logica e ai fondamenti della matematica. In questo campo è da segnalare la formulazione assiomatica dell'aritmetica del 1889 [Arithmetices principia nova methodo exposita, Bocca, Torino], e soprattutto la determinazione di un sistema di simboli logici, alcuni dei quali sono poi entrati nell'uso, mediante i quali insieme a un certo numero di collaboratori entusiasti, tra i quali vanno almeno citati Mario Pieri (1860-1913), Cesare Burali-Forti (1861-1931), Giovanni Vailati (1863-1909) e Alessandro Padoa (1868-1937), iniziò un gigantesco programma di riscrittura rigorosa della matematica.
Da questo progetto, come da quello relativo alla lingua internazionale, Peano fu completamente preso e quasi ossessionato, al punto da tenere le sue lezioni universitarie nel formalismo simbolico; un atteggiamento questo che gli causò non poche difficoltà con i colleghi della facoltà, e che fu una delle principali ragioni del passaggio di Peano dall'insegnamento dell'analisi a quello di Matematiche complementari.
Ma a Torino, contemporaneamente alle ricerche logico-matematiche di Peano e della sua scuola, si sviluppa anche un altro filone di studi, relativo alla geometria algebrica delle curve e delle superficie.
Sappiamo già che l'iniziatore di queste ricerche in Italia era stato Luigi Cremona, che aveva dato un forte impulso allo studio della geometria proiettiva. Ma il punto di irradiazione della scuola italiana di geometria algebrica sarebbe stato Torino, dove nella tradizione cremoniana si innestano le idee della scuola tdesca di Felix Klein (1849-1925) e, soprattutto, di Max Noether (1844-1921). A Torino, nel 1872, era arrivato da Napoli, dove aveva studiato irregolarmente, Enrico D'Ovidio (1843-1933), anche lui cultore di geometria proiettiva, ma noto più che per i suoi studi, che in parte riprendevano temi affrontati da Francesco Faà di Bruno (1825-1888), per aver avuto come allievo Corrado Segre (1863-1924), che laureatosi nel 1883 è già professore nel 1888, a venticinque anni!.
L'influenza di Segre sull'ambiente geometrico italiano fu notevole soprattutto per la quantità di nuove idee che da lui ebbero origine e dalle quali Guido Castelnuovo (1865-1952), Federigo Enriques (1871-1946) e Francesco Severi (1879-1961) trassero ispirazione nella loro opera di fondazione della geometria algebrica italiana. Meno importanti i risultati specifici ottenuti, anche perché, come ebbe a dire Castelnuovo nella commemorazione dell’amico, la sua ricerca si svolse quasi interamente nell'ambito della geometria proiettiva, e quindi “mentre egli aspira ad aprire nuove vie all'indagine geometrica, non si sforza poi di percorrere queste vie fin dove appaiono feconde. La ricerca di semplicità ed eleganza che rende così attraenti i suoi scritti, l'avversione per i ragionamenti complicati ove si riveli lo sforzo, per i procedimenti arditi ai quali talora si è costretti a ricorrere nella fase della scoperta, lo hanno forse trattenuto dal troppo inoltrarsi nelle regioni che aveva cominciato ad esplorare”.
All'insegnamento di Segre si può far risalire la nascita della scuola italiana di geometria algebrica. Dei suoi protagonisti, il più anziano fu Guido Castelnuovo. Dopo gli studi a Padova, dove si era laureato nel 1886 con Giuseppe Veronese (1854-1917), Castelnuovo era andato a perfezionarsi a Roma, sotto la guida di Cremona. Ma l'anziano maestro era troppo preso dai suoi doveri istituzionali, e dopo poco tempo Castelnuovo partì per Torino, dove venne nominato assistente di D'Ovidio e subì l'influenza di Segre. Il periodo torinese di Castelnuovo si svolse tutto sotto il segno del programma di Segre di studio della geometria proiettiva delle curve, che egli cominciò ad estendere nella direzione della geometria delle superfici.
In questo indirizzo di ricerca, Castelnuovo trovò immediatamente un importante collaboratore in Federigo Enriques. Quest'ultimo si era laureato nel 1891 a Pisa, dove aveva avuto modo di incontrare Eugenio Bertini, e subito dopo si era recato a Roma, attratto anche lui da Cremona. Qui Enriques conobbe Castelnuovo, che vi si era trasferito nel 1891 come vincitore della cattedra di Geometria, con cui strinse subito un fortissimo legame sia scientifico che personale. Dalla collaborazione dei due giovani matematici, poi divenuti anche cognati, nacque la nuova teoria delle superfici algebriche.
Il soggiorno di Enriques a Roma durò fino al 1896, quando venne nominato professore a Bologna, dove resterà fino al suo rientro definitivo nella capitale nel 1922, continuando la sua collaborazione con Castelnuovo fino a quando quest'ultimo, dopo il 1910, cesserà praticamente di occuparsi di geometria algebrica.
Sempre a Torino si collega la formazione di Francesco Severi, che si laureò nel 1900 con Segre, e che passò nel 1902 a Bologna, dove fu assistente di Enriques, e l'anno successivo a Pisa, con Eugenio Bertini (1846-1933). Nel 1904 fu nominato professore a Parma, e l'anno seguente a Padova, dove restò fino al 1921. Da Padova Severi si trasferì a Roma, dove iniziò una folgorante carriera accademica che lo vide rettore dell'Università nel 1923, accademico d'Italia nel 1929 e nume indiscusso della matematica italiana fino alla caduta del fascismo.
Rispetto a quello di Castelnuovo ed Enriques, l'approccio di Severi alla geometria algebrica era più attento agli sviluppi dell'algebra che si verificavano in Europa, anche se mancò una reale acquisizione di nuovi punti di vista che venivano elaborati altrove, e che a lungo andare dovevano lasciare gli studiosi italiani su posizioni arretrate.
Non può essere taciuto, in questa rapida panoramica, il nome di Gino Fano (1871-1952) che, ancora studente, su invito di Segre e con la sua supervisione, aveva curato la traduzione italiana del Programma di Erlangen di Felix Klein. Fano conclude gli studi universitari nel 1892, con una tesi di laurea di geometria iperspaziale che risente apertamente dell'influenza sia di Segre, sia di Castelnuovo. Dopo un anno di assistentato (1892-93) con Enrico d'Ovidio presso l'Università di Torino, Fano trascorre un periodo di perfezionamento a Göttingen. Rientrato in Italia, dopo aver rifiutato una cattedra offertagli da Klein, diventa professore a Messina nel 1899 e due anni dopo rientra a Torino, per emigrare poi neli Stati Uniti, nel 1939, in conseguenza delle leggi razziali
A Torino si laurea, nel 1896, anche Beppo Levi (1875-1961), che per i tre anni successivi fu assistente di Luigi Berzolari (1863-1949), che era stato chiamato a Torino nel 1893 a ricoprire la cattedra di Geometria proiettiva e descrittiva. Dopo essere stato alcuni anni assistente di Segre e professore nelle scuole secondarie, nel 1906 Levi andrà a insegnare all'Università di Cagliari e poi a Bologna. A fine secolo, infine, si laureano con lode a Torino due altri giovani di valore, Alberto Tanturri (1877-1924) nel 1899 e Giovanni Zeno Giambelli (1879-1953) nel 1901, entrambi allievi di Segre e entrambi con una tesi in geometria numerativa (quella parte della geometria algebrica legata al conteggio delle soluzioni di questioni geometriche mediante la teoria dell’intersezione).
Non può essere taciuta, in conclusione, una terza scuola scientifica che si sviluppa a Torino a fine Ottocento, quella di Fisica matematica. Nel 1893, infatti, arriva a Torino anche Vito Volterra,  a ricoprire la cattedra di Meccanica razionale. Vi si fermerà fino alla chiamata a Roma nel 1900, sostituito poco dopo dal coetaneo, amico e condiscepolo normalista Carlo Somigliana (1860-1955), allievo di Beltrami e Casorati a Pavia e di Betti e Dini a Pisa, noto per i suoi risultati in teoria dell’elasticità. Ma Volterra tornerà a Torino ancora nel 1906, quando collabora con Valentino Cerruti e Paolo Boselli, Presidente di quel Museo Industriale, per realizzare la  fusione tra il Museo e la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri. Così, il 23 giugno 1906, nasceva ufficialmente il Politecnico di Torino.

 

4. L’influenza di Pisa: la matematica a Padova e Bologna

Nelle due città del titolo di questo paragrafo, che sono sedi universitarie fra le più antiche, gli studi matematici hanno alternato periodi felici ad altri di minore rilevanza. A Padova, intorno alla metà dell'Ottocento, insegna Giusto Bellavitis (1803-1880), un autodidatta che otterrà la laurea nel 1845, quando è già docente di Geometria descrittiva all’Università (dopo un breve periodo di insegnamento al liceo di Vicenza). Bellavitis è considerato uno dei fondatori della tendenza vettorialista in Italia, sebbene il suo “calcolo delle equipollenze” non abbia avuto molto seguito. Sicché il vero decollo della ricerca matematica moderna a Padova si ha solo dopo la sua morte, quando giungono – quasi contemporaneamente – Gregorio Ricci-Curbastro (1853-1925) nel 1880, e Giuseppe Veronese (1854-1917) nel 1881, seguiti nel 1882 da Ernesto Padova (trasferitosi da Pisa sulla cattedra di Meccanica superiore). Alcuni anni prima, nel 1872, era stato chiamato a Padova Antonio Favaro (1847-1922) proveniente da Torino e, nel 1878, il matematico sardo Francesco Flores dei marchesi D’Arcais (1849-1896), per il calcolo infinitesimale. D’Arcais si era laureato nel 1869 a Pisa, rimanendovi quale assistente di Dini alla Scuola Normale. Poi aveva insegnato a Cagliari e Bologna.
Le vicende personali di Ricci-Curbastro e Veronese sono totalmente diverse. Il primo proveniva anch’egli dalla scuola di Pisa, dove aveva studiato con Dini e Padova. Veronese, al contrario, non aveva potuto seguire un corso di studi regolare a causa delle sue condizioni economiche, e si era formato come matematico con il matematico tedesco Georg Frobenius (1849-1917) durante il periodo del suo insegnamento al Politecnico di Zurigo. Dal 1876 aveva poi proseguito gli studi con Cremona a Roma, dove ancor prima di laurearsi era stato nominato assistente di geometria proiettiva e descrittiva. Nel 1880 era andato a Berlino e poi a Lipsia, dove aveva subito anch’egli l'influenza di FeIix Klein.
La presenza contemporanea di Ricci-Curbastro e Veronese, l'uno orientato verso ricerche di geometria differenziale, l'altro più attento alla geometria degli spazi a più dimensioni, ebbe importanti successi nella formazione di matematici di valore, tra cui i più importanti furono Guido Castelnuovo, che iniziò i suoi studi con Veronese prima di trasferirsi a Roma nel 1886 e poi a Torino, e Tullio Levi-Civita, studente di Ricci-Curbastro, che fu il massimo cultore di geometria differenziale del Novecento. Levi-Civita fu anche professore a Padova dal 1897 al 1919, quando fu chiamato a Roma. In quegli anni era a Padova anche Francesco Severi, che vi insegnò dal 1905 al 1921, data alla quale anch'egli si trasferì a Roma. Anche Ugo Amaldi (1875-1957) insegna a Padova, ma anch’egli preferisce seguire gli amici Levi-Civita e Enriques all’Università di Roma. E analogo abbandono l’Università è costretta a subire da parte di Giuseppe Vitali (1875-1932), anch'egli allievo di Dini a Pisa, che insegna a Padova dal 1924 al 1930, data in cui si trasferisce a Bologna.

Qui, nella più antica università del mondo occidentale ancora oggi esistente, nel 1860 era stata istituita una delle due cattedre di Geometria superiore volute dal governo del nuovo Stato unitario e affidata a Luigi Cremona. Poi Cremona era andato a Milano, chiamato da Brioschi al Politecnico, e anche a Bologna bisognerà attendere gli anni ’80 per avere presenze matematicamente significative. Queste portano il segno di Pisa e parlano il linguaggio dell’analisi reale del magistero di Ulisse Dini. Dalla sua scuola erano infatti usciti Giulio Ascoli (1843-1896), laureatosi alla “Normale” nel 1868, poi docente al Politecnico di Milano; Cesare Arzelà (1847-1912), laureatosi alla “Normale” nel 1869; Salvatore Pincherle (1853-1936), laureatosi nel 1874, e Vito Volterra, che abbiamo già incontrato e che ancora incontreremo.

Le profonde indagini di Ulisse Dini sulle funzioni di variabile reale, esposte nei Fondamenti e sviluppate nel suo magistero pisano, furono continuate dai suoi allievi Giulio Ascoli (18431896), Cesare Arzelà (1847-1912) e Vito Volterra (1860-1940).
Cesare Arzelà cominciò ad occuparsi di funzioni di variabile reale negli anni del suo trasferimento all'Università di Bologna (da quella di Palermo, dove era arrivato nel 1878, fresco vincitore del concorso per l’Algebra), chiamatovi insieme a Pincherle nel 1880. Nella sua commemorazione di Arzelà, tenuta nel 1912 al Seminario matematico dell'Università di Roma, Volterra ricordava che i “suoi migliori lavori sono gli ultimi, quelli che egli ha compiuto nell'età matura e superano largamente quelli che egli ha fatto in più giovane età. I risultati conseguiti nel campo dell'integrazione e delle serie sono classici, tanto che i teoremi di Arzelà sono ovunque citati ed applicati” 7.
Volterra cita anche le perplessità che si riscontravano negli ultimi decenni dell’Ottocento nei confronti degli studi delle funzioni di variabile reale, dopo che lo stesso Dini se ne era allontanato e che il suo erede scientifico Luigi Bianchi si orientava verso l’algebra e la geometria differenziale. Non era prudente, e il caso di Vitali – lasciato a lungo nell’insegnamento medio – ne è una prova, che un giovane rischiasse la sua carriera scientifica su un campo, come quello delle funzioni di variabile reale, riguardo al quale, secondo la testimonianza di Volterra, persisteva  “il dubbio delle utilità e delle applicazioni di questi studi e fu detto che in natura solo le funzioni regolari compaiono e solo queste hanno speranza di avere applicazioni. Mentre la teoria delle funzioni analitiche aveva conquistato quasi tutti i matematici nell'ultimo trentennio [...] e le teorie d Cauchy, di Riemann, Weierstrass e di Hermite erano studiate e seguite da tutti, solo un piccolo numero di studiosi coltivava pazientemente [...] la teoria delle funzioni di variabili reali. L’Italia fu uno dei centri più reputati di questi studi [e] Arzelà rappresentò una delle figure più notevoli della scuola italiana”.
Allievo di Arzelà a Bologna fu appunto Vitali (1875-1932), che si iscrisse all'Università nel 1895. Nel 1897 si trasferì a Pisa come allievo della Scuola Normale Superiore, dove seguì le lezioni di Bianchi, di Dini e di Bertini e si laureò nel 1899 con una tesi sulle funzioni analitiche sulle superfici di Riemann. Dopo alcuni anni passati come perfezionando aHa Scuola Normale, andò a insegnare nella scuola media di Voghera, e di lì riprese i contatti con Arzelà, ottenendo presto dei risultati molto importanti nd campo deH'integrazione di Lebesgue e dell'analisi reale.
Leggermente diverso da quello di Arzelà è il percorso scientiico seguito da Pincherle. Questi, dopo la laurea, continua i suoi studi a Pavia (con Casorati) e soprattutto a Berlino, con K. Weierstrass. Il soggiorno tedesco è essenziale per comprendere le linee di sviluppo della ricerca di quello che è considerato uno dei pionieri dell'Analisi funzionale, attraverso il particolare riferimento fornito dalla teoria delle funzioni analitiche. La constatazione che ognuna di queste può essere individuata da un'infinità numerabile di parametri, interpretabili come sue coordinate, porta Pincherle alla considerazione di spazi funzionali di dimensione infinita e allo studio astratto dei funzionali lineari che agiscono su questi spazi, nel tentativo di costruire per questi funzionali un calcolo simile a quello ormai noto per le funzioni di una variabile complessa. Queste nozioni subiranno nel giro di pochi decenni sviluppi e approfondimenti impensabili, ancora all'inizio del secolo, anche lungo direzioni diverse. Quella percorsa da Pincherle non sarà forse la più affollata, come lui stesso avrà modo di riconoscere serenamente.
Dopo il breve soggiorno a Berlino, Pincherle si trasferisce definitivamente a Bologna, che diventa con Pisa un nuovo centro significativo per le ricerche in Analisi. L'esponente più rappresentativo della scuola bolognese è Leonida Tonelli (1885-1946), che sarà uno dei massimi protagonisti della Matematica italiana nel periodo tra le due guerre mondiali. Studia, con Arzelà e Pincherle, a Bologna dove si laurea nel 1907. La sua carriera accademica – come professore ordinario – per diversi motivi comincia però solo dopo la guerra (a Bologna e a Pisa). Ma già prima del 1915, Tonelli scrive lavori molto importanti – tra i più significativi della sua produzione – almeno nel campo dell'Analisi reale e del Calcolo delle variazioni.
Un notevole impulso all’attività matematica nell’Università di Bologna verrà dall’arrivo di Federigo Enriques che appena ventitreenne terrà, il 20 gennaio 1894, la sua prima lezione di Geometria proiettiva. Enriques resterà a Bologna per più di un ventennio (fino al 1922, quando anch’egli si trasferisce a Roma) e farà scuola.

 

5. La scuola matematica di Napoli

L’Università di Napoli, la più antica tra quelle ancora esistenti a fondarsi su un provvedimento sovrano, nasce con la generalis lictera di Federico II inviata da Siracusa il 5 giugno 1224. L’Università però, a partire dal Seicento, dovrà  condividere con le scuole private il privilegio della formazione. Per quanto riguarda l’insegnamento della matematica fino al 1860 la situazione si può così riassumere: le cattedre di matematica, che erano solo due nel 1735 (Geometria, Astronomia e nautica), diventano quattro nel 1777 (Matematica analitica, Matematica sintetica, Meccanica, Astronomia e calendario) e costituiscono una Facoltà autonoma con l’aggiunta di altre due cattedre (Geografia e nautica, Architettura civile e geometria pratica). Con la riforma di Giuseppe Bonaparte del 1806 le cattedre restano sei (anche se con nomi leggermente diversi), mentre scendono a quattro con la riforma di Murat del 1811, ma all’interno di una Facoltà di “Matematica e Fisica” che ne prevede altre undici a indirizzo naturalistico.
Col ritorno dei Borboni nel 1816 viene mantenuta la Facoltà di “Matematica e Fisica”, ma il numero delle cattedre è riportato a sei (Geometria piana e solida, Analisi elementare, Matematica sublime sintetica, Analisi sublime, Meccanica, Astronomia). Tale ordinamento restò in vigore fino al 1850, anno in cui viene ricostituita la “Facoltà di Matematica” con sette cattedre: Geometria con esposizione dei metodi antichi e moderni; Algebra; Calcolo infinitesimale; Applicazione dell’algebra alla Geometria; Meccanica razionale; Meccanica applicata e Geometria descrittiva; Astronomia, Geodesia e Geografia matematica.
Altro luogo di formazione superiore era costituito, a volte con maggiore modernità rispetto allo Studio federiciano, dal Collegio Militare della Nunziatella, dal Collegio di Marina, dalla Scuola di Applicazione di Ponti e Strade e, infine, dai numerosi studi privati8.
Dopo l’Unità d’Italia, il Collegio di Marina fu ridotto al rango di Istituto secondario, mentre la Scuola di Applicazione di Ponti e Strade venne trasformata (1863) in Scuola di Applicazione per gli Ingegneri e poi (1904) in Scuola Superiore Politecnica. Quanto alla Facoltà di Matematica essa venne ristrutturata su undici cattedre (più due cattedre di “Disegno topografico” e “Disegno d’Architettura”):

Algebra complementare;  Geometria analitica; Meccanica razionale
Calcolo differ. e integ.; Geometria descrittiva; Geometria proiettiva9;
Analisi superiore; Geometria Superiore; Astronomia;
Geodesia; Fisica matematica.  

Fino alla riforma Gentile del 1923, Napoli – unica tra le grandi università del Regno – ebbe così due distinte Facoltà di Scienze, una per quelle matematiche e l’altra per quelle naturali, fisiche e chimiche. Questa “anomalia”, com’è stata chiamata con felice scelta terminologica10, con la sua ricchezza di cattedre, ebbe un positivo impatto nel processo di sprovincializzazione della matematica napoletana e di adeguamento al livello delle sedi più importanti (Pisa, Pavia, Bologna). Per dare un’idea dei risultati raggiunti si pensi che fra il 1863 e il 1887 si laureano Gabriele Torelli (1849-1931), Giovanni De Berardinis (1846-1937), Pasquale del Pezzo (1859-1936), Alfonso Del Re (1859-1921), e Ernesto Pascal (1865-1940), tutti docenti nell’ateneo, e ancora Rubino Nicodemi (1850-1929) e Ulderigo Masoni (1860-1936), professori nella Scuola di Applicazione degli Ingegneri. A questi nomi vanno aggiunti quelli di Angelo Armenante (Roma), Vincenzo Mollame (Catania), Nicodemo Jadanza (Torino), Giuseppe Jung (Politecnico di Milano), Salvatore Ortu Carboni (Scuola Superiore di Commercio di Genova) e Giulio Pittarelli (Roma), professori di ruolo nelle sedi indicate in parentesi. Di scuola napoletana fu anche Enrico D’Ovidio (1843-1933), al quale come già si è visto spetta il merito di aver posto le basi, all’Università di Torino, su cui qualche tempo dopo il suo arrivo (1872), per opera prevalente del suo allievo Corrado Segre, fu fondata la maggiore scuola geometrica d'Italia. D’Ovidio si era formato nello studio privato di Achille Sannia (1822-1892), ottenendo la laurea, senza esami, solo nel 1869, dopo che già insegnava da alcuni anni alla Scuola di Marina e al Liceo «Umberto».
Uno degli artefici principali di questa “rincorsa” è certamente Giuseppe Battaglini (1826-1894) che, per quanto avesse studiato alla Scuola degli Ingegneri di Napoli e privatamente, può sostanzialmente considerarsi un autodidatta. Era stato anche, per breve tempo (1850), “alunno” dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte, da cui si era dimesso per non firmare una “spontanea” domanda al Re Ferdinando II di abolire la Costituzione del ‘48. Dopo la caduta dei Borboni, alla fine del 1860 era stato nominato professore di Geometria superiore nella riordinata Università di Napoli. Nel 1871 si era trasferito all'Università di Roma, rimanendovi quindici anni e fungendovi anche da Rettore e da Preside di Facoltà. Nel 1863 aveva fondato a Napoli il prestigioso «Giornale di Matematiche per gli tudenti delle Università italiane», i cui primi volumi erano concepiti come una vera palestra per gli studenti: contenevano  infatti numerosi problemi proposti e risolti, discussioni, relazioni di corsi universitari, rassegne bibliografiche e critiche e sunti di lezioni. Fu solo al rientro a Napoli del Battaglini (1885) che la pubblicazione di Note e Memorie originali cominciò a prevalere e la Rivista assunse questo nuovo carattere nel 1894 quando, con il volume n. 32, ne assunse la direzione Alfredo Capelli (1855-1910), dando il via a una nuova serie con il titolo «Giornale di Matematiche di Battaglini».
Le chiamate a Napoli (1886) di Del Pezzo e dell’appena citato Capelli, assieme a quelle di poco posteriore di Ernesto Cesàro (1859-1906) e di Francesco Siacci (1839-1907), testimoniano l’avvenuta trasformazione della Facoltà matematica in “fulgido centro di sapere”11. Capelli era soprattutto un algebrista, Del Pezzo un geometra, Cesàro un cultore efficace e famoso di Teoria dei numeri e il Siacci, infine, un profondo cultore di Balistica e di Meccanica analitica. «Paradossalmente però – annota Miranda – costoro brillarono più di luce propria che come maestri, tanto che il fenomeno del proselitismo scientifico si ridusse di molto».

 

6. La matematica a Roma

È sufficientemente noto che la Roma del 1870 è una città culturalmente depressa, nonostante le iniziative prese da Pio IX nel corso del suo lungo pontificato (ben 36 anni, dal 1846 al 1878): l’Accademia dei Lincei, chiusa nel 1842 da Gregorio XVI e ricostituita nel 1847 con il nome di “Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei”, è un’accademia locale, i cui soci sono membri della nobiltà e docenti dell’ateneo romano, che non versa peraltro i condizioni migliori, fatta forse eccezione di qualche personalità di un certo rilievo scientifico. Tutti gli “stabilimenti scientifici” dell’Università avevano sede nell’antico edificio della “Sapienza”, così chiamato per l’iscrizione “Initium sapientiae timor domini” posta al suo ingresso. Ad esso si affincavano Palazzo Salviati alla Lungara, sede dell’Orto Botanico, e l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, dove avevano sede il gabinetto di anatomia e l’istituto chimico, ed il Campidoglio, dove aveva sede l’Osservatorio astronomico dell’Università.
Quattro sono gli insegnamenti di matematica nel 1870: Geometria analitica, Geometria descrittiva, Calcolo sublime e Meccanica razionale, tenuti rispettivamente da Luigi Biolchini, Enrico Gui, Barnaba Tortolini (1808-1874) e Domenico Chelini (1802-1878)12. Tortolini e Chelini, sacerdoti e matematici di chiara fama, abbandoneranno la Sapienza per ragioni politiche (e nel caso di Tortolini anche per ragioni di salute). Di Chelini, Giulio Pittarelli dice che fu destituito (con decreto del 18 dicembre 1864) per non aver prestato “il giuramento prescritto. E non potette, perché era ecclesiastico e per non dispiacere al Pontefice PIo IX: così mi disse una volta il Cremona, per averlo saputo dallo stesso Chelini”. E aggiunge: “È doloroso pensare come la fortuna e gi uomini fossero stati, in questa faccenda del giuramento, contrari a uno scienziato del valore del Chelini e a un religioso di carattere mite e buono come il suo”.
Dopo la “presa” di Roma, nel 1870, il governo veramente “italiano” nomina Brioschi “Consigliere di Luogotenenza” per il riodinamento degli Studi alla Sapienza, “e dell’opera sua – dice Pittarelli – riferì al Ministro della P. Istruzione il 20 gennaio 1871”. I provvedimenti presi furono il trasferimento di Biolchini alla cattedra di Algebra complemantare e quello di Gui alla cattedra di Architettura tecnica, sostituito nell’insegnamento della Geometria descrittiva prima da Guido Della Rosa, e successivamente da Eugenio Bertini. Nello stesso 1871 arriva da Napoli Giuseppe Battaglini (1826-1894), chiamato quale ordinario di Geometria superiore – la cattedra che già ricopriva a Napoli dal 1860, la seconda istituita dopo quella di Bologna assegnata a Cremona – e incaricato di Calcolo infinitesimale.
Nel 1873-74 troviamo Battaglini Rettore dell’Università di Roma e nel 1878 passa dalla Geometria superiore alla Geometria analitica, fino al 1885 quando – dice Pittarelli – “cedendo agli antichi colleghi di Napoli, vi tornò; ed ivi morì”. E prosegue: “coloro che, come il D’Ovidio, l’ebbero a maestro ripetono tutti quello che scrive il D’Ovidio stesso13: Non visse che pe rlo studio e per la Scuola. Per lui insegnare fu un bisogno della mente e del cuore. Perciò raccolse  dovunque viva simpatia e profonda riverenza tra i colleghi e i tanti giovani che amorosamente indirizzò nelle vie della scienza; perciò sarà sempre ricordato con gratitudine ed affetto”.
Nel 1873 gli insegnamenti di Matematica si trasferiscono dalla Sapienza a San Pietro in Vincoli, presso la Scuola d’applicazione per gl’ingegneri, diretta da Luigi Cremona, chiamato a Roma in quell’anno insieme a Eugenio Beltrami, e che costituisce di fatto anche l’istituto matematico della Facoltà di scienze. Lì avranno sede la Scuola matematica e la Biblioteca.
Riguardo a Beltrami, ecco ciò che scrive Pittarelli: “Il Beltrami venne come professore ordinario di Meccanica razionale e incaricato di Analisi superiore; e così per l’anno sucecssivo. Poi nel 1875-76 l’incarico fu mutato in quello di Meccanica superiore; ma nell’ottobre di quello stesso anno passò all’Università di Pavia. Quindici anni dopo, cedendo di nuovo agli amici di Roma a capo dei quali era il Cremona, rientrò in questa Università a cominciare dall’anno scolastico 1891-92, desiderato e acclamato da colleghi e scolari14, finché morte immatura lo spense il 18 febbraio 1900, a 65 anni”.
Il recente ritrovamento della corrispondenza di Beltrami con il matematico francese Charles Hermite (1822-1901) consente di precisare le motivazioni che hanno indotto Beltrami ad accettare questo secondo trasferimento a Roma15. Le prime avvisaglie le troviamo nella lettera del 29 dicembre 1890: «Il mio animo è molto più traquillo questo inverno che l’inverno scorso, quando la compagna della mia vita era così gravemente ammalata. La Signora Beltrami sta abbastanza bene, malgrado il freddo rigido che c’è stato, e non oso desiderare meglio di ciò, in questa stagione che è la più ostile alla sua salute. Comincio però a riflettere seriamente se non mi convenga decidermi a un cambio di residenza, portandomi in un clima meno rude. Dopo la morte del mio povero Casorati, in effetti, nulla mi trattiene fortemente a Pavia. Ma è una questione grave, sulla quale avrò tempo di riflettere nel corso dell’anno scolastico».
E nella lettera del 12 marzo 1891: «Io ho ancora un altro motivo di preoccupazione [oltre la salute della moglie] di cui credo di avergliene già parlato di sfuggita. I miei amici della Facoltà di scienze di Roma hanno fatto nuovi passi col Ministro per convincrmi a trasferirmi in quella città, e io non ho subito declinato l’invito, che mi era stato già fatto tante volte. Dopo la morte del mio eccellente collaga Casorati io non più, in realtà, alcun motivo particolare per restare dove mi trovo, e il pensiero che un clima più dolce potrebbe essere più favorevole al ristabilimento della salute della Signora Beltrami, mi fa assai propoendere ad accettare la proposta. Però i fastidi di un trasloco così radicale mi spaventano: mi preoccupo anche un poco della malaria e non posso dimenticare le febbri che ho subìto io stesso nella capitale dell’impero romano. Tutto ciò mi rende un po’ inquieto e mi fa desiderare sopratttutto che quest’anno passi presto, con i suoi dolori, le sue preoccupazioni e le sue incertezze».
E ancora, nella lettera del 24 giugno 1891, Beltrami ci da un altro particolare inedito: «È ormai deciso, o quasi, che dovrò andarmene a Roma: ma ciò sarà per il nuovo anno scolastico. Io mi ricordo, a tale proposito, che un professore molto distinto,ora in pensione, il Signor Tardy16, era stato invitato ad andare a prendere (ormai parecchi anni fa) la cattedra di analisi a Roma, che era scoperta. Tardy non rifiutò, formalmente, ma, scriveva al Ministro, “ occorrerebbe farmi ritrovare a Roma la mia casa, con la mia biblioteca, con tutte le mie carte in ordine, etc. così come si trovano a Genova” (dove Tardy allora abitava). Naturalmente la cosa non ebbe seeguito. Io vedo ora come Tardy avesse ragione di mettere tale condizione, sfortunatamente impossibile da soddisfare! E però io mi deciderò molto volentieri a questo bruttissimo sconvolgimento delle mie abitudini, perché ho la speranza che il clima dolce della città eterna sarà favorevole alla salute della Signora Beltrami. Solo che questa prospettiva disturba un po’ i miei attuali studi».
Come maestro, dice Pittarelli, “il suo nome fu dei più famosi, e si può leggere a questo proposito quello che scrive Valentino Cerruti17 nella commemorazione del 4 marzo 1900 ai Lincei, e che è riportato quasi «ad litteram» in quella, posteriore e più vasta, dal Cremona. Alle sue lezioi, come a quelle del Battaglini e del Cremona, solevano assistere anche assistenti o professori giovani della stessa Università: io, per un anno nel 1891-92, e non più giovane, fui assiduissimo a quelle sulla teoria dell’elasticità, e ne redigevo gli appunti giorno per giorno. Era veramente ammirabile il maestro: l’esposizione sua era di una limpidezza cristallina; e il quadro della lezione era perfetto in ogni sua parte: si sarebbe detto esser delineato da un artista. Discendeva, infatti, da famiglia di artisti: avo, padre e madre rispettivamente incisore di pietre dure, pittore miniatore, poetessa e musicista. E musicista era anche il nostro, educato prima dalla stessa madre, poi esercitatosi con Amilcare Ponchielli, coetaneo e concittadino suo: aveva una conoscenza scientifica della musica ed era abile e ispirato esecutore al piano, ma ritroso”.
E veniamo adesso a Cremona, che era stato chiamato a Roma dal Ministro Antonio Scialoja18 a dirigere la Scuola di applicazione per gl’ingegneri, che lo stesso ministro aveva – con decreto del 9 ottobre 1873 – riordinata e ampliata, mantenendola accademicamente annessa all’Università, ma separndola amministrativamente con bilancio a parte, con un Direttore nominato a vita, coadiuvato da un Consiglio direttivo di quattro membri, eletti metà tra i professori ordinari della facoltà. Nella Scuola di Applicazione il Cremona fu altresì professore rdinario di Statica grafica, mentre nella Facoltà di Scienze fu incaricato di Geometria proiettiva e superiore. Inoltre, presso la Scuola di Applicazione, analogamente a quanto fatto da Brioschi al Politecnico di Milano, venne fondata una Scuola normale superiore “per istruire e preparare professori d’Istituto tenico  nella matematica, nella fisica e nelle scienze naturali; e vi tenevano conferenze così il Cremona come altri professori della Facoltà”. Ma questa Scuola normale, molto simile come impostazione alle Scuole di magistero per la formazione dei docenti delle scuole medie superiori, non ebbe molta vita.
Dopo cinque, nel 1878, il Cremona, pur conservando la carica di Direttore della Scuola di Applicazione, passò alla Facoltà di Scienze quale professore ordinario di Matematiche superiori. Anche di Cremona abbiamo, a parte le svariate commemorazioni, il giudizio di Pittarelli che fece in tempo a conoscerlo19: “È risaputo a quale alta estimazione egli avesse condotta la Scuola di Applicazione per gl’Ingegneri, quanto a serietà di studi e rigidità di disciplina; e coloro che lo ebbero a maestro sanno degli affettuosi consigli e dei validi aiuti loro dati, per ripetere (...) parole del prof. Bertini. Ma anche pel Cremona, come già pel Beltrami, posso aggiungere la mia esperienza personale. Io che studiai a Napoli non ebbi il Cremona a maestro; ma lo ebbi poi giudice benevolo nel concorso per la nostra Facoltà; e quando vi avevo già assunto l’insegnamento, volli tornare scolaro e lo feci per i due anni 1888-89 e 1889-90. Anch’egli come il Beltrami era artista nelle sue lezioni; ma, continuando il paragone tolto dalla pittura, direi che mentre il colore dei quadri del Beltrami era dolce, quello dei quadri del Cremona era forte di luci e di ombre, luci sfolgoranti ed ombre trasparenti, non buie; sicché su noi scolari facevano effetto sorprendente e impressione durevole”.
Concludiamo col dire che sul finire degli anni Settanta giungono a Roma oltre al già citato Cerruti, anche Alberto Tonelli (1849-1921), Nicola Salvatore-Dino (1843-1919) e Francesco Chizzoni (1848-1904). Negli anni Ottanta l’assetto della matematica rimane sostanzialmente stabile; nel 1887 la Geometria descrittiva passa a Giulio Pittarelli, mentre nel 1892 la Geometria analitica è affidata a Guido Castelnuovo e nel 1900, alla morte di Beltrami, viene chiamato a Roma Vito Volterra. Come vedremo, saranno proprio Castelnuovo e Volterra a traghettare la matematica romana nel nuovo secolo, con l’obiettivo di fare di Roma la capitale matematica d’Italia.

 

7. I matematici italiani e i problemi della didattica disciplinare

Abbiamo più volte accennato alla forte attenzione di alcuni matematici italiani agli aspetti didattici della disciplina. Alcuni autori sottolineano addirittura questa attitudine come una specificità italiana nel campo dell’educazione matematica italiana rispetto alla situazione europea20. Tale specificità consisterebbe nell’ampio numero di manuali scolastici (prevalentemente di geometria) di alto livello elaborati dai principali matematici del periodo risorgimentale che, offrendo un largo spettro di posizioni metodologiche diverse, animarono il dibattito sulla didattica disciplinare.
All’atto dell’unificazione del Paese, l’Italia eredita nel campo scolastico una situazione davvero pesante, dovuta principalmente alla disomogeneità sostanziale delle sue varie parti, cui solo marginalmente può mettere riparo l’estensione della Legge Casati21 a tutto il territorio nazionale. La situazione è resa ancora più difficile dalla mancanza di libri di testo adeguati e da un corpo docente mal retribuito che non trova nella burocrazia ministeriale alcun efficiente aiuto per recuperare una maggiore qualificazione professionale. È evidente quanto questa sarebbe stata necessaria: la scuola italiana nasceva mettendo assieme alla meglio un corpo docente ereditato dai precedenti Stati preunitari.
A questa situazione i matematici rispondono con una buona mobilitazione, non sempre ripresa nei decenni successivi. Solo per dare un’idea dell’attività istituzionale dispiegata nel primo trentennio di vita unitaria dai matematici italiani, abbiamo raccolto nella Tabella I l’elenco delle Riviste fondate (e nel caso degli Annali, rifondate) nel trentennio in discorso.
Ugualmente importanti gli sforzi tesi alla fondazione della scuola unitaria che si accompagnano a quelli per lo sviluppo di una ricerca scientifica paragonabile a quella europea. Nel 1869, in una lettera22 a Giuseppe Battaglini, fondatore e direttore del Giornale di Matematiche (che si suole indicare col suo nome), Francesco Brioschi e Luigi Cremona chiariscono il senso della proposta di introdurre nei ginnasi-licei lo studio diretto degli Elementi di Euclide23.


Tabella 1. Riviste di Matematica, Storia e  Didattica  fondati in Italia nell’Ottocento
TITOLO Luogo della prima uscita Periodo di uscita
     

Annali di Scienze Matematiche e Fisiche
fondato da Barnaba Tortolini, continua come Annali di Matematica Pura ed Applicata curato da Enrico Betti, Francesco Brioschi, Angelo Genocchi, Barnaba Tortolini

Roma



Roma

1850-1857,



1858-

Giornale di Matematiche ad Uso degli Studenti delle Università Italiane
fondato da Giuseppe Battaglini, Vincenzo Janni, NicolaTrudi

Napoli

1863-1938/39,
1947/48-

1965/67

Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze Matematiche e Fisiche
fondato da Baldassarre Boncompagni

Roma
1868-1887

Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo
fondato da Giovanni Battista Guccia

Palermo

1887-1917,
1919-1941,
1952-

Bollettino di Storia e Bibliografia Matematica
Bollettino di Bibliografia e Storia delle Scienze Matematiche
fondato da Gino Loria, continua come Sezione Storico-
Bibliografica curata da Loria nel giornale Il Bollettino diMatematica fondato da Alberto Conti nel 1902

Napoli

Torino

1897,
1898-1919,

1922-1943,
1947-1948

Rivista di Matematica Elementare
fondata da Giovanni Massa

Alba

1874-1885

Il Piccolo Pitagora
fondato da Alberto Cavezzali

Novara
1883-1884

Periodico di Matematica
fondato da Davide Besso,
successivamente Periodico di Matematiche

Roma

1886-1916,
1921-1943,
1946-

Rivista di Matematica
fondata da Giuseppe Peano

Torino
1891-1906

Il Pitagora
fondato da Gaetano Fazzari

Avellino

1895-1915,
1917-1919

Bollettino dell’Associazione Mathesis
primo direttore Giovanni Frattini; inizialmente inserito nel Periodico di Matematica, in seguito ha legami vari con il Periodico giornale autonomo con il titolo
Bollettino della “Mathesis”. Società Italiana di Matematica

Roma

1896-

 

1909-1920

Supplemento al Periodico di Matematica
fondato da Giulio Lazzeri

Livorno
1897-1917

La Palestra Scientifica
fondato da Vincenzo Giriodi

Torino
1897

Il Tartaglia
fondato da Pietro Caminati

Foggia
1898-1899

La proposta era stata fatta propria dal ministro Coppino ed era entrata a far parte dei nuovi programmi24, non senza suscitare obiezioni e polemiche.
Il ritorno ad Euclide era una soluzione di compromesso tendente ad avviare il processo unificatore dell’insegnamento della matematica in Italia. Nel loro manuale, Sannia e D’Ovidio scrissero che si era trattato di «un’operazione chirurgica» che aveva fatto «gridare, ma giovò»25. E nella contemporanea lettera a Battaglini, Brioschi e Cremona chiarivano che «l'introduzione come libro di testo del trattato euclideo aveva lo scopo di elevare il livello degli studi matematici nelle nostre scuole, permettendo ai giovani di usare un testo dove potessero “Apprendere a ragionare, a dimostrare, a dedurre”, senza ricorrere ai mezzi celeri o ai libri ove la geometria è mescolata con l'aritmetica o con l'algebra»26. Si trattava cioè di pensare a un buon manuale moderno che potesse considerarsi come un Euclide “rivisitato” piuttosto che “sfigurato”. Non diversamente, ancora trent’anni dopo, anche Giuseppe Veronese (1845-1917), nella seconda edizione (1900) dei suoi Elementi di Geometria, ricordava la vicenda:

I programmi attuali per le nostre scuole classicheprescrivono per la Geometria razionale nel Ginnasio superiore e nel Liceo il metodo di Euclide, che consiste specialmente nello stretto rigore scientifico e nell’esclusione di ogni sussidio dell’Aritmetica e dell’Algebra fino alla teoria della misura; ma non prescrivono il testo Euclideo. Tale prescrizione fu resa necessaria dall’invasione nelle nostre scuole classiche di certi testi stranieri che non si informano a questi principî e pervertono il gusto geometrico. E perciò va data lode ai compianti e illustri nostri matematici Betti e Brioschi di avere rimesso in onore in Italia il metodo Euclideo colla loro traduzione degli Elementi del sommo geometra greco.

Il senso della proposta nasceva, dunque, dalla duplice esigenza di dotare il Paese di programmi nuovi e validi che dettassero obiettivi e contenuti uguali per tutte le scuole nelle varie regioni d'Italia e di far piazza pulita della miriade di testi di autori stranieri non sempre all’altezza della situazione. Significativo quanto lo stesso Cremona aveva scritto nel 186027:

Il signor Lemonnier, già benemerito dell’Italia per averle dato bellissime edizioni delle migliori opere letterarie, merita ora la nostra riconoscenza anche per la pubblicazione di ottimi trattati di matematiche elementari. Nell’agosto 1856 usciva alla luce il Trattato d’Arimetica di Giuseppe Bertrand, tradotto in italiano dal professore Giovanni Novi; scorsi appena due mesi tennero dietro il Trattato d’Algebra Elementare dello stesso Bertrand, tradotto dal porfessore Enrico Betti, e il Trattato di Trigonometria di Alfredo Serret, tradotto dal professore Antonio Ferrucci. Un anno dopo si pubblicavano dallo stesso editore gli Elementi d’Aritmetica, scritti dal professor Novi, perché servissero d’avviamento al Trattato di Bertrand. Ora da quattro mesi è uscito il Trattato di Geometria Elementare di A. Amiot, tradotto dallo stesso professor Novi, e ci viene anche promesso un trattato d’algebra superiore, opera originale del professor Betti, già noto per sue profonde ricerche in questa materia.

E alla fine del lungo articolo, in una nota apposta alla sua firma, così concludeva:

Ora che il giogo straniero non ci sta più sul collo a imporci gli scelleratissimi testi di Moznik, Toffoli, ecc., che per più anni hanno inondato le nostre scuole, e le avrebbero del tutto imbarbarito se tutti i maestri fossero stati docili a servire gli interessi della ditta Gerold – ora sarebbe ormai tempo di gettare al fuoco anche certi libracci di matematica che tuttora si adoperano in qualche nostro liceo e che fanno un terribile atto di accusa contro chi li ha adottati. Diciamolo francamente: noi non abbiamo buoni libri elementari che siano originali italiani e giungano al livello dei progressi odierni della scienza. Forse ne hanno i Napoletani che furono sempre e sono egregi cultori delle matematiche; ma come si può aversene certa notizia se quel paese è più diviso da noi che se fosse la China? I migliori libri, anzi gli unici veramente buoni che un coscienzioso maestri di matematica elementare possa adottare nel suo insegnamento, sono i trattati di Bertrand, Amiot e Serret, così bene tradotti e ampliati da quei valenti toscani. I miei amici si ricorderanno che io non ho cominciato oggi ad inculcare l’uso di quelle eccellenti opere.

Quel “noi non abbiamo buoni libri ... che siano originali italiani” era un chiaro invito ad andare oltre le traduzioni del trattato di Legendre, Eléments de géométrie, che, edito per la prima volta a Parigi nel 1784, aveva avuto una larghissima diffusione e numerosissime edizioni, o le pur eccellenti traduzioni recenti dei trattati di Amiot e di Bertrand curate da Novi28. È così che si era messa in moto la macchina che aveva portato all’adozione del testo degli Elementi a cura di Betti e Brioschi e, poi, a bandire i primi concorsi per un trattato di geometria elementare “che si attenesse rigorosamente al metodo euclideo e contenesse quella parte di scienza posteriore all’Euclide che ormai si trovava in tutti gli Elementi di Geometria adoperati come testi nelle scuole classiche delle nazioni più colte”29.
Le sollecitazioni ministeriali, i nuovi programmi di insegnamento, l'impegno per un radicale rinnovamento nell’insegnamento da parte di Battaglini, Brioschi e sopratutto Cremona, gli studi critici sui fondamenti della matematica, che portano ad una revisione dei fondamenti dell'analisi ad opera di Ulisse Dini e dei fondamenti della geometria ad opera di Giuseppe Veronese e di Giuseppe Peano, stimolano la produzione di testi per le scuole. Come giustamente ricorda Mammana ricorrendo ad un precedente giudizio di Luigi Brusotti30, è da questo ambiente che trae origine la caratteristica dei testi scolastici italiani di dare un ruolo preponderante al rigore logico sia nella sistemazione generale sia nella cura dei particolari. Ne sono un luminoso esempio i manuali di Faifofer31 e di De Paolis32.

Il testo di De Paolis è decisamente quello che si distacca maggiormente dai rimanenti due, per la netta affermazione dei vantaggi didattici offerti dalla “fusione” tra planimetria e stereometria. De Paolis scrive nella Prefazione33 che

esiste molta analogia tra certe figure del piano e certe figure dello spazio, studiandole separatamente rinunziamo a conoscere tutte le cose che questa analogia ci insegna e cadiamo volontariamente in ripetizioni inutili. Di più obbligandoci a cercare le proprietà di una linea o di una superficie, senza potere utilizzare gli enti geometrici posti fuori della linea o della superficie stessa, limitiamo le forze di cui possiamo disporre, e rinunziamo spontaneamente a materiali geometrici coi quali si potrebbero semplificare le costruzioni e le dimostrazioni. (...)
Potrei portare altri esempî34 per far vedere sempre più quanta semplificazione si può introdurre, nelle dimostrazioni e nelle costruzioni, studiando insieme le figure piane e le solide, e se molti di questi esempî finora non si sono presentati, nella Geometria elementare, è proprio l’antica e costante divisione che ha impedito di scoprirli.

Il metodo “fusionista” inaugurato da De Paolis avrebbe avuto un discreto successo pochi anni dopo, con la pubblicazione nel 1891 degli Elementi di geometria di Giulio Lazzeri e di Anselmo Bassani, un manuale che ebbe nel 1898 una seconda edizione, che meritò una recensione su L’Enseignement mathématique35.
Altro, e non meno interessante, elemento di interesse del manuale di De Paolis è dato dalle “Nozioni preliminari”, con molteplici rinvii alle Note apposte alla fine del testo e con la scansione di “Definizioni” e “Metodi dimostrativi” (di analisi e sintesi e di riduzione all’assurdo) che iniziano la stagione della manualistica italiana, caratterizzata dal rigore logico e dalla chiarezza e semplicità espositiva. Sul problema del rigore il dibattito, nell’ultimo decennio del XIX secolo, è però serrato fra chi, come Peano36, ne è uno strenuo e intransigente difensore,e chi, come Corrado Segre, ugualmente attento ai problemi dell’insegnamento, tende ad assumere posizioni meno intransigenti.
Nel rivolgere alcuni consigli ai giovani desiderosi di intraprendere la ricerca scientifica, Segre scriveva: “come, allorquando si tratta solo di scoprire una verità, la purezza del metodo passa in seconda linea, così accade spesso che in una prima ricerca si debba sacrificare (sacrifizio molto più grave, trattandosi di matematica!) il rigore. Soventi volte la verità scientifica appare come collocata su una vetta eccelsa e per raggiungerla non si hanno dapprima che sentieri malagevoli su chine pericolose, sì che vi è gran facilità di precipitare negli abissi in cui sta l’errore... Così è avvenuto frequentemente che il primo modo di giungere ad una verità non sia stato pienamente soddisfacente, e che, solo dopo, la scienza sia riuscita a completarne la dimostrazione. Certamente ... il matematico non potrà essere veramente contento quando ad un nuovo risultato sia giunto con procedimenti poco rigorosi: egli non si considererà come sicuro di quello finchè non l’avrà rigorosamente dimostrato. Ma non rigetterà senz’altro quei procedimenti incompleti nelle ricerche difficili in cui non possa sostituirli meglio: poichè la storia della scienza lo ammaestra appunto sull’utilità che tali metodi hanno sempre avuto”37.
Così pure egli sosteneva che nell’insegnamento “Bisogna evitare di annoiare. Ma vi è luogo anche, per ragioni didattiche, a mancare veramente di rigore, a dare cioè in iscuola degli abbozzi di ragionamento invece, oppure prima, dei veri ragionamenti. Un tale abbozzo di ragionamento o dimostrazione non rigorosa, potrà insegnare in che modo si fanno le scoperte, come si lavora con l’intuizione... Al rigore perfetto in certe cose si può giungere più avanti”38.
Peano invece era categorico: “noi riteniamo che non si possa ritenere ottenuto un risultato finchè esso non è rigorosamente provato... e chi enuncia delle conseguenze che non sono contenute nelle premesse, potrà fare della poesia, ma non della matematica”39.
Di lì a poco il tema del “fusionismo” e il problema del rigore nell’insegnamento della matematica animeranno la Mathesis, la prima associazione italiana di insegnanti di matematica fondata nel 1895 da Rodolfo Bettazzi, Aurelio Lugli e Francesco Giudice. Nello stesso anno, quasi a sottolineare il fiorire di iniziative editoriali e associative nell’ambito scolastico, volte a migliorare e a promuovere gli studi (in particolare di matematica), usciva il ben noto manuale di Giuseppe Veronese in cui si possono ritrovare i suoi studi critici sui fondamenti della geometria40.
Con la fondazione della Mathesis e l’attività di Veronese nel settore dell’insegamento della matematica siamo già entrati nella fase della stabilizzazione, cui è dedicata la parte terza di questa narrazione.

 

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